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In contatto con Baghdad (51)
by robdinz Sunday, Apr. 06, 2003 at 11:08 PM mail: robdinz@hotmail.com

Questa e la guerra?

La jeep Hammer sporca di polvere e fango con le insegne “UsArmy”
avanza lentamente proprio dietro l’Università. Dietro di lei un convoglio di almeno 15 altri mezzi militari “leggeri”.
Su ciascuna è montata una mitragliatrice pesante, quelle con il nastro dei proiettili grandi come un dito che esce dai due lati del caricatore. Tre uomini, tre soldati americani con elmetto con un copri-elmo mimetico, una giubba di cotone pesante beige dalla quale escono piccoli fili e cavi arrotolati che rimandano agli auricolari ed ai sistemi di comunicazione. Il soldato che ha per le mani l’impugnatura della mitragliatrice sembra immobile, concentrato sul mirino elettronico dell’arma.

La colonna avanza in un silenzio irreale di tanto in tanto interrotto dai tonfi cupi e secchi che provengono dalle granate lanciate poche strade più in là dai carri armati dell’esercito invasore.
Improvvisamente e senza nessun motivo la mitragliatrice gira la canna verso un’abitazione chiusa al primo piano di un piccolo edificio bianco e parte una raffica di colpi. Decine, centinaia di proiettili che vanno a sfondare le deboli protezioni in legno e lamiera di ferro delle finestre, facendo rimbalzare dappertutto schegge di intonaco e di legno. Frantumando i vasi di terracotta pieni di fiori che ancora ornavano in modo ordinato il piccolo balcone. La ringhiera di ferro che proteggeva la porta della casa piomba a terra e viene calpestata dalle ruote dei grandi fuoristrada che continuano la loro avanzata.
Sdraiato a terra dietro le finestre chiuse ed oscurate con carta di giornale, a soli cinquanta metri dalla pattuglia degli occupanti un reporter indipendente è testimone diretto dell’azione che mi descrive con grande emozione.

Attualmente si trova in un frequentato albergo della capitale, decisamente più al sicuro, ma quello di cui è stato testimone oggi difficilmente lo potrà dimenticare.

Fin dal mattino i colpi, le bombe, i missili hanno colpito le aree sud, nord ed ovest di Baghdad. Dalle 11.00 tutti sono stati informati attrraverso i megafoni dei soldati e della polizia del coprifuoco che sarebbe scattato alle 18.00 e proseguirà almeno fino all’alba.
Il problema quindi per il mio contatto è spostarsi rapidamente, con prudenza, fino ad arrivare proprio nella zona dell’Università, la più martoriata della capitale dove è l’appuntamento con altri due colleghi.
Il centro della città è completamente in mano dell’esercito iracheno e dei numerosi “feddayn” in borghese ed armati che camminano nervosamente su e giù per le strade. Il traffico è pari a zero, la circolazione delle auto ridotta al minimo. Solo un pizzico di fortuna fa incrociare le strade del reporter con un vecchio autobus diretto verso sud. Lo prende al volo, molto attento alla strada percorsa dal bus per evitare di trovarsi in zone sconosciute della città.
All’altezza del Ministero dell’Informazione, si rende conto che praticamente tutta l’area residenziale attorno alla piazza è stata bombardata, e sono ancora visibili a terra alcune vittime coperte di pietre. Come fosse una pietosa sepoltura.
Pochi metri ancora poi decide di scendere dal bus. Meglio cercare di proseguire a piedi.
Poco oltre il centro televisivo della IraqiTv, un capannello di persone smbra discutere animatamente. Un giovane alto e magro con una “kefiah” bianca e rossa arrotolata intorno al collo si esprime in inglese e mette in guardia il reporter dal proseguire oltre quella piccola aiuola che delimita un incrocio. Non meno di dieci o dodici automobili sono completamente carbonizzate. Alzando lo sguardo, l’intera facciata di un palazzo di 6 piani è sventrata in ogni sua parte. Finestre divelte, mobili ed infissi sparsi ovunque. Il ragazzo iracheno con espressioni sincopate riesce a descrivere ciò che è accaduto neanche un’ora prima.

Siamo nell’area immediatamente adiacente alla periferia sud di Baghdad. Oltre questi palazzi nessuno si avventura.

Una colonna di blindati e jeep americane sono arrivate fino alla piazza, travolgendo le aiuole che la delimitavano e sparando sulle vecchie auto parcheggiate. Dopo un mezzo giro della rotonda si sono come schierate di fronte a quell’unico palazzo ed hanno aperto il fuoco. Con durezza, mirando a tutto ed a niente, sventrando muri e penetrando negli appartamenti. Dopo pochi minuti almeno un gruppo di inquilini si sono precipitati fuori gridando e piangendo. I soldati sembrava come li aspettassero: inseguiti, strattonati e gettati a terra. Con dei lacci di plastica bianca venivano serrati i polsi dietro la schiena. Quindi presi per i capelli le teste ficcate di forza in cappucci neri. Poi i calci, gli sputi, i manici dei fucili usati come clave. Trascinati a terra per decine di metri e butatti dentro degli autoblindo.

Questo trattamento è stato riservato ad almeno cinquanta civili disarmati, in gran parte donne, vecchi e bambini che abitavano nel palazzo senza più luce, acqua, medicine. Prigionieri della loro stessa casa da più di sei giorni.
Sei giorni di paura e di angoscia. Terminati questa mattina con un autentico sequestro di persona multiplo a danni, mi ripete il mio contatto, di civili disarmati.
Finita l’”operazione militare”, la colonna di mezzi americani ha completato il giro della piazza ed è scomparsa nelle strade polverose che portano verso l’aeroporto.

Il ragazzo iracheno capisce il disagio del reporter europeo. Uno straniero ma non un nemico, e lo invita ad andare poco più in là, fino ad un garage, quasi nascosto dalle rovine di un bombardamento dei giorni scorsi.
Questa è la guerra? Chiede senza ottenere risposta, Questi sono gli americani che ci devono liberare? Gli uomini che dovremmo rispettare perché sono venuti a tutelare i nostri diritti umani?
Tu cosa faresti se fossero i membri della tua famiglia quelli presi a calci, incappucciati e portati via da soldati stranieri?

Il reporter non sa cosa rispondere, pensa all’appuntamento che deve rispettare, al coprifuoco che si avvicina, a cosa troverà andando oltre quei palazzi.

Ma il ragazzo iracheno lo incalza: dimmi tu che sei europeo cosa pensano i cittadini dell’Unione Europea di questa guerra?

Vieni a vedere la mia casa, è proprio qui sopra. I due salgono in fretta le scale ed arrivano di fronte ad una porta di legno dove Feisal, così si chiama il rgazzo, con due colpi dei piedi si fa aprire. Il reporter entra e trova almeno dieci persone, la famiglia di Feisal, a terra, chi sdraiato chi seduto. Gli fanno cenno di non parlare, di sedersi, di non far rumore. Il terrore è stampato su quelle facce con la barba lunga, su quei visi femminili circondati da un velo.

Poi di colpo, di nuovo, il rumore dei mezzi militari.
Feisal sbircia dietro i giornali che coprono i vetri delle finestre. Gli americani, gli americani quasi grida, e tutti si abbassano a terra. Feisal porta il reporter nella sola altra stanza della casa e lo invitaa guardare fuori.
La colonna di 15 jeep Hammer. Con le scritte “UsArmy”. Quelli che hanno fatto fuoco contro quel balconcino del primo piano dove ancora c’erano i vasi di terracotta peini di fiori.

Questa è la guerra? Chiede ancora Feisal.
Già, questa è la guerra?

Dopo circa mezzora Feisal, venuto a sapere il luogo dell’appuntamento del reporter con i suoi colleghi si offre di accompagnarlo lui. In auto. Ma non fino all’hotel, sarebbe troppo pericoloso per Feisal tornare indietro.
Scendono di nuovo in strada e dopo aver parlato fitto fitto in arabo con altri due ragazzi, Feisal viene raggiunto da una vecchia Renault con altri ragazzi a bordo. Il reporter entra, zaino sulle ginocchia. Gli occupanti per fargli posto sono costretti a spostare due mitra e due fucili e si tirano la “kefiah” sul viso.

Dieci minuti di corsa per strade impensabili, fossi e prati, entrare ed uscire da magazzini abbandonati, poi l’auto si ferma. Il reporter scende, fa un cenno di saluto a Feisal ed agli altri.

Vedi, gli dice Feisal, noi siamo “Feddayn”, può darsi che tra un’ora, domani o tra qualche giorno saremo morti combattendo. Cosa diranno i giornali del tuo paese? Che siamo dei “kamikaze”, che abbiamo ucciso a sangue freddo dei ragazzi del Colorado o della California che erano venuti a portarci la libertà, a difendere i nostri diritti?

Tra quei civili incappucciati e brutalizzati che non sappiamo neppure dove siano finiti, e perché gli è stata distrutta la casa e loro fatti progionieri c’erano i genitori si Saul. Ed indica il ragazzo con i capelli neri lunghi alla guida dell’auto.

Questa è la guerra? Chiede un’ultima volta Feisal prima di rimontare in macchina ed allontanarsi in una nuvola di pietre che schizzano lanciate dalle ruote della macchina.

Che la notte sia leggera.
r.

Ecco le corrispondenze che mi arrivano da Amman, di Rosarita Catani, che ha seguito i notiziari delle 19.00 e delle 23.30 (ora giordana) del canale satellitare “Al Jazeera” e della televisione giordana.


di Rosarita Catani
da Shafa Badran
(Amman)
Giordania

6.4.2003 – h. 19.00.
Il cielo di Bagdad è nero. Non c’è un cielo a Bagdad. E’ pieno giorno ma sembra notte inoltrata.
Fa caldo! L’aria è ancora più irrespirabile per il fumo e per il caldo.
Sento i rombi degli aerei. I missili cadono come pioggia.
Eccolo! Lo vedo. Ecco un altro colpire una casa. Si vedono i pezzi saltare in area.
Il giornalista di Al Jazeera commenta le immagini.
Mentre commenta si guarda intorno. Sussulta ad ogni scoppio.
Guardo le immagini ed avverto la paura. Una paura che si trasmette oltre il video.
Me la sento addosso.
Il giornalista volta la testa appena sente il rombo di un aereo. Lo fa vedere. Il suo sguardo è cupo.
Sento lo scoppio delle bombe. Sembra d’averle qui in casa. Ho paura anche io adesso.
La città è deserta.
Si vede solo questa cortina di fumo nero ed il fuoco.
Oggi i bombardamenti sono ancora più forti, più accaniti. Bombardano ovunque oramai. Non mirano più ad obiettivi precisi.
Le immagini si spostano su Bassora.
Ci sono stati violenti combattimenti fra le milizie irachene ed i soldati britannici.
Una carovana di carri armati britannici si dirige verso Bassora. Sono arrivati alle porte della città.
Sparano colpi di cannone. Colpite abitazioni civili.
Entrano nella città con i loro dhabbah (carri armati).
La città è già martoriata.
La televisione araba comunica che molto probabilmente i feddayn scenderanno in azione questa notte per colpire i soldati britannici.



6.4.03
Notiziario delle 23.20 ora locale.

Continuano i bombardamenti. Non si ha respiro.
Gli ospedali sono pieni. Non c’è più posto.
Non si conosce né l’entità dei danni ancora né l’entità delle vittime.
Guardo il sangue scorrere negli ospedali. Sento l’odore della morte. Si sente l’odore della morte.
Bambini. I bambini che pena.
Portano un bambino ferito, che piccolo, avrà si o no due anni. E’ colpito alla testa.
Non c’è posto. Li mettono per terra i feriti.
Vedo i medici correre da una parte all’altra.
Una signora piange: “Bush non vuole la pace. Noi chiediamo la pace, lui non sa neanche cosa significa la Pace. Uno dei miei figli non so neanche dove sia e l’altro è in ospedale con una gamba rotta”. Urla! E’ l’urlo disperato di una madre.
Si asciuga le lacrime con il suo ishar e va via.
Un’altra madre grida tutto il suo dolore e dice: Lasciate crescere i nostri figli. Lasciateli vivere e diventare grandi.
Questa notte non c’è tregua. Le bombe continuano a cadere.
Non so se riuscirò a dormire questa notte.
Davanti a miei occhi vi è solo distruzione e morte.






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