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Disobbedire non basta. I malintesi della nonviolenza
by kowalski Monday, Jul. 22, 2002 at 11:14 PM mail:

E' radicata l’idea che legalità e nonviolenza siano, in fondo, la stessa cosa. Un malizioso malinteso che ha fatto della nonviolenza e del pacifismo un comportamento subalterno, domesticato, fondamentalmente acquiescente all’ordine costituito. È questo il grande “malinteso” che egemonizza la nonviolenza italiana e che fa di molti pacifisti dei pacificati o dei pacificatori. Spetta ai militanti nonviolenti più sinceri e autentici risolverlo

DISOBBEDIRE NON BASTA
I malintesi della nonviolenza

di Communautilus - Rivista critica del tempo presente, luglio 2002

« La nonviolenza oggi è la forma di mobilitazione che il movimento assume come proprio paradigma, sia per la convinzione del profondo intreccio che deve esistere tra fini e mezzi, sia perché oggi è l'unico strumento che ci permette di costruire, in una realtà complessa, con forti poteri sovranazionali, quel consenso necessario per modificare le regole del gioco e per cambiare questa nostra società ».

Vittorio Agnoletto, Il Manifesto 18 Luglio 2002

I tratti addolciti del viso tradivano la sua giovane età. Si era staccato dal gruppo e in una mano teneva una pietra che scagliò con tutta la sua forza contro un drappello d’uomini bardati con scudi e mazze, caschi e stivali, armi da fuoco alla cintola. Quasi appagato da quell’incosciente gesto di sfida, s’era voltato per riguadagnare le fila dei suoi compagni. Teneva larghe le braccia mentre le mani erano nude come in quella foto dell’anarchico diventata un manifesto, quando l’eco d’alcuni colpi di pistola risuonò nell’aria. I suoi compagni urlavano, mentre un poliziotto aveva freddamente preso la mira per fucilarlo alle spalle. In quel momento il suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore. Colpito alla schiena ma ancora incredulo continuò a camminare ma le sue falcate sembravano oramai passi di danza. Cadde sull’asfalto solo dopo aver compiuto una piroetta. Era il giugno del 2001, a Gotebörg. Il “movimento dei movimenti” solo per poco era scampato al suo primo morto. Un presagio maledetto che si avverò qualche settimana più tardi a Genova, in piazza Alimonda, dove un altro giovane, all’incirca della stessa età, venne ucciso da un coetaneo in divisa con un colpo in mezzo agli occhi. Carlo Giuliani la morte l’ha vista in faccia mentre gli altri manifestanti avevano avuto il tempo d’indietreggiare di fronte a quell’arma spianata. Forse era troppo tardi per fermarsi o forse non voleva arretrare, ma andare fino in fondo per impedire a quel braccio teso, armato e in divisa di Stato, di continuare la sua minaccia. Due colpi, una quiete irreale cadde d’improvviso sul campo di battaglia rotta poi da nuove grida, mentre il corpo di Carlo veniva oltraggiato dalle ruote del Defender dei carabinieri.

“Fiori velenosi venuti solo per sfasciare”[1], non trovò migliore espressione una dirigente dell’organizzazione antimondialista ATTAC per liquidare i fatti di Gotebörg. Secca e adirata contro quella che ai suoi occhi sembrava una teppaglia neoluddista, madame Susan George, trovò più che normale che una pietra valesse un colpo di pistola tirato alle spalle. Autoconvocate, quelle orde d’insorti in cerca di sommosse non erano gradite. Disturbavano le ordinate kermes internazionali, i carnevali di strada, i convegni compunti dei professionisti dell'associazionismo, questa nuova burocrazia della società civile che pensa di poter fronteggiare gli irruenti spiriti animali del capitalismo ultraliberale pervenuto al suo stadio globale attraverso forme di regolazione economica, strumenti procedurali e regole etiche. Misure inadeguate quanto l'idea di poter fermare l'Oceano in tempesta con dei sacchetti di sabbia. Nello stesso periodo, un appello sottoscritto da intellettuali italiani e francesi, tra cui spiccavano le firme d’alcuni ex partecipanti ai movimenti politici degli anni Settanta, censurava le violenze e gli scontri di piazza, in modo particolre le brutalità commesse nei confronti di merci come “i cassonetti bruciati e le vetrine rotte”. Costoro invocavano manifestazioni ordinate e ottennero nient’altro che le forze dell’ordine. Decisamente la storia non è intenzionata a smentire quell’adagio che vuole ogni tragedia ripresentarsi in farsa. Per nulla appagati da tanta stigmatizzazione etica prim’ancora che politica, prendiparola del Forum sociale genovese e leaders d’alcune componenti noglobal, sponsorizzati dai loro grandi elettori mediatici, lanciarono il ritornello infinito, e per giunta dopo un anno ancora non provato, degli infiltrati. Lo fecero a caldo, sopraffatti dal pregiudizio e da servile paura, quando il corpo straziato di Carlo Giuliani non aveva ancora un nome. Nei salotti volanti delle dirette RAI di prima serata che seguivano il G8 circolava ancora la voce che il giovane ucciso fosse uno spagnolo, di certo un basco, un black bloc in ogni caso. Gli invitati[2], ancora accaldati per aver sfilato nei cortei del pomeriggio, attaccarono le forze di polizia colpevoli d’inerzia per aver lasciato devastare la città da bande di facinorosi vestiti di nero. Le forze dell’ordine avevano assalito i cortei quando questi sfilavano ancora lungo i percorsi autorizzati, in diversi punti della città i carabinieri avevano fatto uso d’armi da fuoco, in risposta gli acuti esponenti noglobal invece di pretendere meno forze dell’ordine invocavano più forza pubblica in piazza. Sollecitati con tanto ardore, il sabato successivo le forze di polizia eseguirono con zelo il loro mandato fin dentro alla Diaz. Immemore o forse ignaro che solo nei paesi dove vi è un controllo autoritario dello spazio pubblico le forze di polizia organizzano e svolgono il servizio d’ordine nei cortei, l’arrogante e mai pago presidente della LILA, Vittorio Agnoletto, pretendeva la tutela poliziesca per le sue sfilate nonviolente. Solo in tarda serata, sopraggiunta la notizia che quel manifestante deceduto altri non era che il figlio di un noto sindacalista della CGIL genovese, il “reprobo” Carlo Giuliani divenne finalmente un ragazzo da difendere, un imbarazzante martire da far proprio.

Le rughe del conflitto

Tornate le masse, riempite le piazze, anche il conflitto si è riaffacciato con le sue crudezze, le sue asperità e rugosità. In verità si è manifestato con un livello di violenza di piazza estremamente basso e dalle dimensioni sociali ristrette ma sufficienti per essere amplificato e rimbalzare sui media. Poco, molto poco, rispetto ad altre epoche o latitudini, a tal punto che si sarebbe potuto liquidare il fenomeno con alcune semplici domande : quante armi da fuoco si sono viste fino ad ora tra i manifestanti ? Chi ha invece fatto uso di armi ? Quante molotov sono state lanciate o trovate a Genova ? Trecentomila manifestanti e forse neanche una decina bottiglie incendiarie, per giunta di fortuna… Eppure fin da Seattle, le polemiche sulla violenza hanno accompagnato, ed in parte anche nutrito, i raduni anti G8, fornendo visibilità mediatica e capacità catalizzatrice al movimento antiglobalizzazione. Perché tanta ossessiva attenzione nei confronti di forme di violenza di strada a così bassa intensità ?

Forse una prima ragione la si può trovare nel ruolo assunto dai media, nel loro potere di decretare ciò che è accaduto e ciò che non è accaduto. Una dinamica perversa che tende a presentare o privilegiare come fatto avvenuto solo ciò che può essere venduto sotto forma di spettacolo sociale. Il G8 di Genova costituisce un esempio paradigmatico in proposito. La somma delle ragioni esterne (calcoli e attese politiche) e delle dinamiche interne all’informazione, proprie dell’evento mediatico, hanno prodotto un crescendo, una sorta di tam tam che ha soffiato lungamente sul fuoco, attizzando i rumori di rivolta. Genova doveva essere l’appuntamento della grande sommossa. Questo s’attendevano e volevano i media, quelli di sinistra per dare una spallata al governo di centrodestra appena insediato, quelli di destra per demonizzare l’avversario e legittimarsi dietro il riflesso repressivo della maggioranza silenziosa. Dopo Gotebörg nelle redazioni ci si era già preparati all’eventualità di nuove vittime, taluni per altro l’auspicavano politicamente. Le dirette televisive del primo pomeriggio di venerdi 20 trasudavano delusione per la scarsità degli episodi violenti da raccontare e mostrare. La manifestazione era ancora eccessivamente tranquilla. Un oceano di folla non valeva le vetrine di qualche banca. Solo più tardi, i corrispondenti hanno potuto finalmente appagare la loro sete di vampiri eccitati con le immagini sanguinolente, i fuochi e gli scontri. Dopo giorni e giorni di tam tam mediatico che chiamava alla rivolta, ripreso dalle farse della guerra comunicazionale dichiarata da alcuni gruppi (tute bianche), la trappola mediatica si è richiusa sul popolo degli ammutinati che si era raccolto nelle strade di Genova. L’icona del black bloc, emblema del bandito postmoderno, è stata marchiata col sigillo d’infamia dell’infiltrato e del provocatore. Lo spettacolo sociale dava vita ad una nuova telenovela infinita destinata a riproporre ad ogni futuro episodio una sorta di revisionismo storico in tempo reale.

Frattura ideologica e frattura sociale

Brevemente forse vale ricordare che i movimenti sociali sono sempre stati il prodotto di una convivenza obbligata, avvolte d’interesse, tra tendenze e approcci diversi. Pratiche più o meno nonviolente e condotte violente hanno coabitato ignorandosi o polemizzando, a volte persino confondendosi. A seconda delle circostanze, l’una è prevalsa sull’altra. Movimento di massa e forza d’urto; minaccia del numero e violenza dell’atto; forza delle ragioni e ragioni della forza; spessore e imponenza contro agilità, visibilità e incisività; guerra di posizione e guerra di movimento. Insomma, quando appare, un movimento sociale di massa rassomiglia ad un poliedro, forma geometrica dalle molteplici sfaccettature. Può accadere anche che ci siano movimenti omogenei o egemonizzati da alcune sue componenti, ma il più delle volte i movimenti emergono come “plurali”, “molteplici”, “variegati”. Ora il fenomeno antiglobalizzazione si autodefinisce “movimento dei movimenti” e costitutivamente si ritiene attraversato dalla “contaminazione reciproca” delle sue componenti. Niente di più normale, dunque, che in questa fiera del molteplice vi siano dei settori (allo stato minoritari) che non escludono o privilegiano il ricorso a forme di violenza politica o d’azione illegale.

Pertanto la semplice violenza politica di strada, e prim’ancora l’idea stessa d’azione illegale, vengono maggioritariamente percepite dalle altre componenti come un tabù inviolabile. Esiste un nodo ideologico di fondo, egemone nel movimento antiglobal, che identifica la violenza come una risorsa illegittima e l’illegalità come una soglia difficilmente valicabile. Questa caratteristica ideologica è dovuta probabilmente alla sua attuale composizione sociale, predominano infatti le componenti cristiane e i ceti medi, le organizzazioni non (e para) governamentali, animate da approcci etici alla regolazione del capitalismo (economia solidale, finanza etica e previdenza sicura), oppure da pratiche procedurali (bilancio deliberativo), o ancora da organizzazioni sindacali del mondo agricolo e contadino, organismi politico-editoriali e settori istituzionali legati a posizioni sovraniste o fordiste della politica, dello Stato e dell’economia. La frattura ideologica e politica che si delinea attorno al problema dell’uso eventuale della violenza e dell’illegalità ripercorre la stessa frattura sociale che divide il nuovo mondo della precarietà, il popolo dei selvaggi delle periferie urbane, generato dal capitalismo postfordista, dai ceti medi o i gruppi sociali dotati di tutele sindacali e corporative che pensano di poter regolare la globalizzazione ultraliberale.

* * *

Siamo curiosi di capire meglio cosa racchiude questa cultura che si definisce “nonviolenta”, ma che stenta a darsi una coerenza e un rigore forti. Dietro l’etichetta nonviolenta infatti si raccolgono posizioni ed argomenti fin troppo eterocliti che fanno pensare a volte ad un uso strumentale di questo labello positivo, sorta di appellazione DOC, legittimante agli occhi dei poteri costituiti. Quando il presidente della LILA (lega italiana per la lotta all’aids), membro di rilievo nazionale del movimento antiglobal, portavoce del mondo del volontariato, partigiano della nonviolenza, condanna gli attacchi contro le infrastrutture e le merci (cassonetti, vetrine di banche e società d’interim, supermercati, concessionarie auto…) con un’acrimonia tutta particolare, che si avvale di una stigmatizzazione etica che eccede la semplice censura politica, e poi sfila — senza esprimere riserve — in un corteo che inneggia a massacri di kamikaze contro una popolazione civile, qualche cosa in questa presunta cultura della “nonviolenza” non funziona. Che un cassonetto bruciato possa essere infinitamente più grave di un giubbetto imbottito di chiodi e d’esplosivo fatto conflaglare dentro un autobus o nel bel mezzo di un mercato popolare, non ci persuade.

Questa nonviolenza a geometria variabile, questa etica delle latitudini, merita d’essere verificata nella sua pertinenza etico-filosofica e socio-storica. Troppo spesso gli argomenti da essa sollevati sono sorretti solo da capovolgimenti di significati, da pregiudizi e malintesi e da una sospetta connivenza con l'idea di legalità.

Della nonviolenza come declinazione dell’Etica

Per sostenere le ragioni della nonviolenza alcuni autori ricorrono ad argomenti sorretti da quella che i testi definiscono etica della convinzione anteposta all'etica della responsabilità, entrambe fondate su logiche razionali ma che privilegiano fattori diversi: per esempio, la coincidenza dei mezzi col fine, di contro all'asimmetria dei mezzi dal risultato. Ragione morale contro ragione cinica insomma. Accade spesso, dunque, che il tema della nonviolenza venga affrontato sulla base di convinzioni etiche o religiose. Nella maggioranza dei casi, infatti, la pertinenza, o meglio la superiorità di questo metodo è affermata facendo un uso diretto di argomenti morali oppure lasciandosi ispirare da questi, ma pescando ragioni e tesi su un piano storico o pragmatico.

Altri autori però, resi più accorti nella scelta dei loro argomenti dalla fragilità delle dimostrazioni morali di fronte alle repliche dell’esperienza storica, privilegiano nuove strategie argomentative, preferendo ricorrere alla ragione strumentale, per spiegare come la nonviolenza si sia mostrata storicamente più efficace e per questo (dunque su una base puramente utilitarista) superiore. In fondo, lo stesso Gandhi usava dire che se posto di fronte al dilemma della scelta tra passività e attività violenta, avrebbe preferito la violenza poiché comunque questa restava una forma d'azione. E l’azione contro ogni passività era ai suoi occhi il bene superiore[3] . Ed è vero che conquistata l'indipendenza, la nazione indiana non ebbe difficoltà a dotarsi di uno Stato con un esercito, una polizia, dei tribunali, delle prigioni. L'esperienza gandhiana si risolse in un incredibile paradosso, l'abile inversione dei termini propri all'etica della responsabilità: i mezzi al posto dei fini e i fini al posto dei mezzi. In luogo dei tradizionali metodi dettati da un utilitarismo pragmatico (che non escludono l'uso della forza), egli sostituì dei mezzi morali come la nonviolenza per dare spazio a dei fini che sopprimendo gli obbiettivi etici nonviolenti suscitavano la nascita di uno Stato, organismo che per definizione costitutiva esercita il monopolio della forza legittima. L’essenza della concezione gandhiana della politica si risolve in una sorta d'invito continuo all'azione, alla lotta contro la servitù volontaria. Quella gandhiana è stata un’etica suprema della mobilitazione, dell'agire, della sottrazione dell'uomo alla passività e alla remissione, a quella che si può definire come una vera e propria “malattia della volontà”. In Gandhi c’è l’idea che l’essenza della dignità umana stia nel prendersi in carico, nello stringere tra le mani la propria vita e il proprio destino. L’uomo è in piedi solo quando sa camminare sulle proprie gambe e scegliere autonomamente la propria strada, altrimenti resta un mammifero supino. La lezione gandhiana traduceva a suo modo una tradizione filosofica che almeno dalla modernità vede iscritti pensatori della portata di Spinoza, Rousseau, La Boetie, Marx.

La nonviolenza, intesa come comportamento fuoriuscito da una pratica che s’ispira all’etica della convinzione, è posta di fronte ad una insormontabile contraddizione: l'assunto etico per avere validità intrinseca, ovvero per rispondere al criterio di coerenza interna, deve intendersi come assoluto. Esso non può trascegliere, adattarsi alle circostanze. Fu questo il grande dramma dei pacifisti nonviolenti del Novecento, in particolare di fronte alla seconda guerra mondiale. Molti alla fine raggiunsero, sulla base d’una scelta duramente meditata, le fila della Resistenza anti-nazifascista. Presero le armi insomma. Altri, restarono rigorosamente nonviolenti. Non vollero farsi coinvolgere dal conflitto, nemmeno di fronte alle nefandezze naziste, ai campi di concentramento. Molti di loro erano rimasti segnati da quel macello di carne umana che fu il primo conflitto mondiale. Avevano assistito a quell’orribile guerra, alle decimazioni decise dagli Stati maggiori contro le truppe insubordinate, agli assalti suicidi contro le linee nemiche. “Mai più !”, s'erano detti. Les chemin des dames, in Francia, luogo mitico come da noi furono le alture del Carso, evoca immagini terribili d’uomini immersi nel fango intriso di sangue, dove orde di soldati venivano lanciati all'assalto e obbligati a calpestare i corpi dei propri compagni falciati dal fuoco nemico, per giorni e giorni, settimane intere. In Italia, le truppe venivano sospinte in avanti a suon di cannonate sulle retrovie, sparate non dal fuoco nemico ma da quello amico su ordine degli Alti comandi, mentre i carabinieri seguivano e arrestavano, fucilando sul campo chi rimaneva in trincea o s’imboscava nelle buche sotto i cadaveri. In Francia, a causa della loro scelta pacifista, molti militanti nonviolenti furono processati, comunque invisi perché sospettati di connivenza con la repubblica nazional-fascista di Vichy, che firmò l'armistizio e poi collaborò attivamente col nazismo.

Ora la nonviolenza etica, per le ragioni “predittive” che la caratterizzano (l'evocazione qui e ora, hic et nunc, della società che sarà domani), per la sua pretesa d'anticipare nei metodi una delle regole della società futura, dovrebbe condurre ad una rottura drastica, nettissima (non a caso Thoreau propugnava il rifiuto di pagare le tasse e l'obiezione di coscienza) con qualsiasi ordine costituito che esprimesse violenza, dunque innanzitutto con quell'organo che per definizione esercita la “violenza legittima”, ovvero la coercizione legale, quale è lo Stato. Ogni atteggiamento che non fosse coerente con questa condotta verrebbe in qualche modo a trasgredire l'enunciato etico adeguando il proprio comportamento a ragioni d'opportunità inammissibili secondo i presupposti morali affermati. Il nonviolento non dovrebbe credere, ne tanto meno rispettare, i codici di procedura e i codici penali, i tribunali, la magistratura, per quello che esprimono e rappresentano: la legalità. E la legalità è per definizione l'esercizio procedurale di una dose (che s'accresce secondo le esigenze) di coercizione e violenza ritenuta necessaria alla regolazione sociale.

E se delle ragioni – anche comprensibili - d'opportunità vengono evocate, allora si abbandona il terreno dell'etica della convinzione per entrare in quello della responsabilità. Ovvero si sceglie di attuare una strategia i cui mezzi sono (nella fattispecie l'accettazione passiva di una violenza statuale sovrastante), per forza maggiore, non completamente conformi con i fini. Insomma, l'opzione nonviolenta diverrebbe una delle tante strategie dotate di tattiche duttili, fatte di compromessi, ragioni di circostanza, opportunità, ecc. In questo caso, poi, sarebbe ancora più sospetto un atteggiamento di censura netta della violenza esercitata da soggetti deboli, oppositori, contestatori, in ogni caso non appartenenti alle classi dominanti (detentrici del potere economico-finanziario e politico), senza un’eguale condanna aperta e un’azione di disobbedienza attiva e corrispettiva verso lo Stato. Non solo quando questi esercita materialmente violenza attiva, ma per il fatto stesso d'esistere in quanto istituzione. E se anche solo per brevità, tralasciamo il fatto che lo Stato sia quel grande Moloc che si è imposto grazie ad una violenza originaria potentissima e irresistibile che ha travolto le forme d’organizzazione sociale preesistenti, non si può non ricordare che lo Stato di diritto contemporaneo esprime tuttora quella che alcune teorie sociologiche chiamano la violenza simbolica. Ovvero: “quella violenza dolce, invisibile, sconosciuta come tale, scelta quanto subita” (Pierre Bourdieu, Le Sens pratique, Minuit, Parigi 1980). Una violenza mascherata che cela dietro una falsa naturalità gerarchie di valori, saperi, una somma d’ineguaglianze storicamente costruite che esprimono un rapporto di dominazione il più delle volte interiorizzato dai dominati.

Della nonviolenza come ragione pratica
La letteratura nonviolenta non risparmia argomenti in favore della possibilità d’affermare l'efficacia delle sue ragioni e dei suoi metodi sulla base d'un presupposto puramente “ pragmatico ”, ovvero l'analisi di pratiche storiche concrete, misurando “ quali siano i mezzi che hanno maggiori possibilità di ridurre sofferenza, aumentare la giustizia e creare una nuova società ”[4]. Terreno impervio, quasi improbo, quello delle pratiche concrete, accidentato da numerosi malintesi, confusioni ed equivoci storici, dovuti essenzialmente alla scarsa sistematicità del “pensiero nonviolento”, al suo carattere spesso approssimato, poco aduso al rigore del concetto.

Una prima difficoltà sorge con i codici linguistici. Infatti, i riferimenti non sono affatto gli stessi tra i termini del dibattito che circola in Nord America e il dibattito Europeo. Testi della letteratura nonviolenta statunitense definiscono “ metodi convenzionali ” della lotta politica: le campagne elettorali, la propaganda politica, le azioni legali, le petizioni, la compilazione di lettere pubbliche, le attività di lobbing. Questi metodi sono ritenuti: altra cosa dall'azione nonviolenta, la quale definisce innanzitutto le “ manifestazioni che hanno origine a livello popolare, quando le persone hanno bisogno d’agitazione di piazza per conseguire uno scopo ”[5]. Questa definizione “a maglie larghe” sembra voler dire che l'azione nonviolenta si distingue dai metodi tradizionali perché non produce delega politica, non chiede mediazioni rappresentative ma si fonda sull'azione diretta, la partecipazione attiva dei soggetti popolari (e perché no delle classi medie ?); in secondo luogo, perché i requisiti di questa azione non tengono conto dei limiti imposti dal codice penale. Insomma, l'azione nonviolenta se ne infischia d’essere illegale. Se presa alla lettera, questa concezione della nonviolenza solleva numerosi problemi rispetto all’accezione che di essa viene fatta in Europa ed in modo particolare in Italia, dove i gruppi sedicenti nonviolenti fanno larga incetta di metodi “convenzionali”, di deleghe e d'incoronazioni mediatiche e governamentali (vedi Genova), e confondono la nonviolenza con il rispetto pedissequo del codice penale.

Un secondo problema d’ordine storico sorge quando vengono citate alcune forme d'azione ritenute nonviolente: manifestazioni, sit-in (presidi), occupazioni e scioperi, boicottaggi [6]. Ecco che una parte dell'arsenale più tradizionale delle pratiche esercitate nella storia del movimento operaio e dai gruppi politici a lui ispiratesi dal 1848 ad oggi (anarchici, socialisti, comunisti, di varia natura e credo, scuola, Internazionale — ma anche prima, si vedano i Luddisti, come spiega lo storico inglese Edward Thompson in, La formation de la classe ouvrière anglaise. Essi infatti non distruggevano solo i macchinari di fabbrica ma organizzavano scioperi, manifestazioni, praticando le prime forme d'agitazione politica operaia), diventano di colpo gli strumenti privilegiati dell'azione nonviolenta. Difficilmente si può contestare che queste forme di lotta appartengono al patrimonio genetico della cultura politica figlia del movimento operaio, il quale si è distinto storicamente dall'adesione teorica e pratica alla nonviolenza. Il movimento operaio è stato insurrezionale, rivoluzionario, violento, oppure riformista, legalista, istituzionale, ma solo marginalmente nonviolento (nonviolente, forse, possono essere ritenute le società filantropiche, o quelle fabiane e cartiste inglesi che si battevano per un riconoscimento dei diritti politici agli albori del movimento operaio, con strategie petizionarie. Strumenti che però la letteratura nonviolenta più radicale considera oggi convenzionali).

Le strade sono larghe, c'è posto per chiunque voglia condividere, gomito a gomito, i marciapiedi e le piazze, aderire o fare uso dello sciopero, delle occupazioni, dei presisdi ecc., ciò detto, però, è evidente che non può essere intrattenuta la confusione tra nonviolenza e semplice partecipazione a manifestazioni cosiddette “pacifiche”, ovvero l'azione di massa, più o meno legale a seconda delle epoche e degli ordinamenti costituzionali. Una condotta condivisa trasversalmente dai più diversi orizzonti politici, sociali e religiosi. Se nonviolenza è sfilare legalmente e pacificamente lungo le strade, oppure occupare provvisoriamente delle piazze, previa autorizzazione fornita dalla questura, allora anche la manifestazione di Forza Italia del 19 novembre 2001, a Piazza del Popolo, era una iniziativa nonviolenta, al pari delle manifestazioni dei poliziotti francesi, che nello scorso dicembre hanno riempito le piazze rivendicando più soldi per le loro tasche e più prigione per gli altri cittadini. Qualunque manifestazione pacifica e legale, quelle attuate dalle forze di governo, come quelle dell’opposizione parlamentare, ovvero da forze politiche che non fanno minimamente cenno nei loro programmi, proclami e statuti, alla nonviolenza, che mai hanno contestato l’esercizio della violenza monopolistica da parte dello Stato e dei suoi apparati coercitivi, sarebbero l’espressione di pratiche nonviolente. Si arriverebbe al paradosso che si potrebbe manifestare in un modo ritenuto nonviolento l’adesione ed il sostegno ad una guerra. Evidentemente, in questo tipo di ragionamento, qualcosa non va !

Sciopero e nonviolenza
É un errore includere lo sciopero del lavoro come quello della fame nella lotta nonviolenta. E se il primo non è affatto ascrivibile come metodo peculiare alla tradizione nonviolenta, il secondo pur essendo una delle forme più identitarie delle condotte nonviolente, è ben lontano dall’essere un comportamento privo di violenza.

Lo sciopero del lavoro nella sua essenza è un'azione d'insubordinazione profonda, di confronto brutale tra rapporti di forza che sovente esula tutte le forme e le procedure: incrociare le braccia, tutti insieme, per bloccare la produzione delle merci padronali. Lo sciopero è un attacco durissimo alla proprietà, all'essenza della valorizzazione del capitale, poiché intacca le merci nel cuore della loro produzione mettendone in gioco la sopravvivenza. Proprio per questo la reazione padronale è stata sempre ferrea, senza risparmio di mezzi repressivi: venivano organizzate le serrate, reclutati i crumiri, organizzate le provocazioni di uomini di mano prezzolati, sollecitato l’invio della polizia, dell’esercito, lo scatenamento della magistratura. Gli operai allora furono costretti a difendere il loro sciopero, per non essere sconfitti prima di cominciare. Lo dovettero difendere conquistando l’autonomia gestionale e dunque politica delle società di mutuo soccorso, che erano nate, con Bismarck in Germania ed il secondo impero in Francia, come cinghie di trasmissione dirette del controllo statale sulla condizione operaia, attraverso la presidenza d’ufficio attribuita a commissari di polizia o a notabili fedeli. Nacquero poi i picchetti (ovvero il fatto d’impedire ai non scioperanti con l’intimidazione del numero, la presenza e la forza fisica, di entrare nei luoghi di lavoro. Infrazione prevista dal codice penale), le occupazioni (invasione per mezzo d’effrazione, intimidazione e forza fisica di proprietà altrui. Infrazione sanzionata dal codice penale), i boicottaggi e i sabotaggi (distruzione di beni e proprietà altrui. Infrazione perseguita dal codice penale), attorno ai quali per quasi due secoli si sono svolte lotte durissime, drammatiche, intrise di sangue, prigione e miseria, anche quando lo sciopero è infine divenuto un diritto tutelato costituzionalmente. Lo sciopero è stato e resta tutt’ora (seppur con attenuazioni, modalità e impieghi differenti) lo strumento comune a tutte le anime del movimento operaio, ma in particolare lo sciopero generale è stato un riferimento quasi mitico che ha alimentato gli universi ideologici più ribelli, contestatari e rivoluzionari : si pensi alla pratica divenuta a volte mito, dello “sciopero insurrezionale”, l’elemento che doveva innescare “l’ora x”, l’assalto finale (le officine Putilov nel 1917, quelle Fiat nel 1943), il connubio tra violenza insurrezionale e sciopero generale propugnato dal socialista George Sorel, autore del famoso libro, Grève générale et violence.

Lo sciopero della fame, poi, è semplicemente una forma di violenza mutata di segno, non più aggressiva ma autoagressiva. E' autofagia del corpo che comincia a nutrirsi dei grassi residui, i grassi bruni e poi di quelli che avvolgono gli organi vitali. Lo sciopero della fame è l'essenza ultima della vita nuda in rivolta, stadio finale d'un ammasso di carni messo ai margini, d'una esistenza ridotta a semplice carcassa che pur vedendosi dimagrire riesce ancora a sentirsi pesante. Chiuso ogni spazio alla parola e all'azione, resta il corpo nudo da mettere in gioco. Parola e azione agiscono in una comunità, entrano in rete, ma quando non c'è più possibilità di relazione, il corpo divorandosi diventa uno strumento di parola, forma ultima ed estrema d’insubordinazione. Lo sciopero della fame è accettabile quando a praticarla sono individui ridotti alla loro carcassa, prigionieri o schiavi in nude celle sotto sorveglianza, ma diventa una strategia del ricatto, moralmente disprezzabile, quando è impiegato demagogicamente da deputati e portaborse sotto i riflettori dei media. Altra cosa sono poi i digiuni propri della tradizione ascetica e spiritualista, iscritta nella cultura di molte religioni rivelate o senza theos, percorsi di purificazione intima, di testimonianza individuale, d’autismo politico o d'anoressia sociale. Una “bulimia dell’anima” che odia il proprio corpo, lo trova sudicio e vuole liberarsene, elevandosi dalla sostanza terrena oppure fondendosi col resto della materia naturale. Questa “fuga da se stessi” è difficilmente conciliabile con i parametri della razionalità politica Occidentale, in ogni caso è solo demagogia fatta col corpo voler iscrivere la natura asociale dei digiuni purificatori nelle pratiche della lotta politica che conosciamo e pratichiamo, o addirittura in quella del ceto politico-istituzionale.

La nonviolenza nella storia: un bilancio
Due sono gli episodi storici di maggiore importanza che appartengono alle fondamenta della cultura e dell’immaginario nonviolento:

Il primo è legato alla nascita della nazione indiana. Incontestabilmente l’episodio storico dove maggiore è stata la presenza della strategia nonviolenta. Non c’è qui lo spazio per svolgere un’analisi storica appropiata, ma quantomeno vanno fatte alcune osservazioni che ci consigliano d’usare delle cautele di fronte al mito fondatore (tipico di ogni nazionalismo) della nazione indiana. Se l’icona di Gandhi gioca il ruolo di grande padre (espressione saliente di quella che Max Weber chiamava “ legittimità carismatica ”, potere simbolico magnetico del profeta che può essere ben più lungimirante e equo del demos, ma certo non è sinonimo di potere democratico rappresentativo, partecipativo o diretto...), la nonviolenza è un mito delle origini. Mito lontano e assai paradossale per un paese che da allora non ha finito d’essere straziato da miriadi di conflitti nazional-religiosi e massacri indicibili (secessione del Pakistan e guerra latente perpetua ai suoi confini, rivolta Sik, irredentismo del Kashimir, guerra del Bangladesh), fino al punto di dotarsi della bomba atomica. La strategia Gandhiana si è potuta avvalere del fatto che il partito del Congresso condivideva parte della gestione del potere coloniale inglese. Seppur subalterna, l’elite indiana aveva posti di comando nell’amministrazione. Ciò ha senza dubbio favorito lo sviluppo di una strategia di lotta per l’indipendenza che procedesse per vie interne, appoggiandosi a forme organizzate di non collaborazione. Gandhi elaborò una strategia adattata ad un’India troppo povera e inferiore tecnologicamente per affrontare una guerra guerreggiata. Il ricorso all'imponenza del numero contro l'esigua minoranza dei colonizzatori doveva permettere la cacciata del ceto degli amministratori e degli affaristi che gestivano l'impero coloniale e le sue truppe. La forza del numero aveva margini per incidere nel negoziato avanzato dall’elite indiana anglofona, espressione d'un emergente capitalismo autoctono. Il contesto internazionale favorì la decolonizzazione, sostituita da un nuovo assetto più moderno dell’economia mondiale. La decolonizzazione inglese, francese, portoghese è un processo storico che s’avvia dopo la seconda guerra mondiale sotto l’emergere del nuovo binomio delle potenze mondiali fuoriuscito vincitore dal conflitto: USA e URSS. Gli inglesi s’eclissano dietro l’emergere del nuovo assetto dell’imperialismo economico statunitense. Il ruolo giocato dall’Unione Sovietica, limitrofa e divenuta l’alleato di riferimento dell’India nella regione, ebbe un peso importante. Il tipo di rivendicazione avanzata, ovvero l’edificazione nazionale (mal riuscita per altro), contribuì alla praticabilità della strategia nonviolenta. In effetti, se all’interno delle forze indipendentiste indiane fosse sorto un movimento d’ispirazione socialista, capace d’organizzare le masse contadine attorno alla rivendicazione dell’espropriazione dei latifondi, difficilmente avremmo ricordato l’epopea indiana come una lotta nonviolenta. E quanto fosse fragile, e per nulla predittiva, quella strategia, lo dimostrano i tragici avvenimenti successivi: partiti gli Inglesi scoppiò la guerra civile, seguita dalla guerra di secessione con i mussulmani (che diede vita al Pachistan), segnata da massacri religiosi ignominiosi e dall’assassinio dello stesso Gandhi. La sopravvivenza della società castale è una ulteriore conferma del fallimento della esperienza nonviolenta, mostratasi incapace d’edificare quei nuovi rapporti umani e sociali, fondati sulla riconoscenza dell’altro, ch’essa prefigura e dunque sul superamento d’una società suddivisa gerarchicamente dalla nascita e compartimentata in modo stagno. Paradossalmente la nonviolenza sembra aver contribuito, contro i suoi stessi intenti, ad accrescere quel sentimento d’acquiescenza e di passività che ha rafforzato la percezione della naturalità delle caste e minato l’opportunità d’una rivolta mossa dalla difesa della dignità umana.

L’altro esempio è fornito dalla stagione di lotte per i diritti civili negli USA. Nel caso delle lotte patrocinate dal pastore (anche lui ucciso) Luther king, vi è il desiderio d’iscriversi in una comunità nazionale riconosciuta dai rivendicatori (i neri) ma che pertanto li esclude. Insomma l'obiettivo spiega anche il metodo rivendicativo: pacifista, integrazionista, con una violazione a bassa intensità della legalità, fatto di possenti episodi d’insubordinazione sociale di massa, boicottaggio e schermaglia giuridica. La battaglia si limitava ad abolire l'apartheid per entrare a pieno titolo nella società ambita, non per cambiarla dalle fondamenta. E forse, la battaglia per i diritti civili è stato il solo terreno di lotta politica possibile, in un contesto animato dalla “guerra fredda” esterna che trovava il suo corrispettivo interno nella guerra civile camuffata contro il comunismo, che fu il maccartismo. I limiti di questa battaglia, il fatto che essa sia rimasta incompiuta, sono riconosciuti anche nella letteratura nonviolenta, che non esita a evocare “il razzismo che imperversa ancora” e l’assenza di “vittorie rilevanti”[7]. L’affermazione dell’eguaglianza formale non ha trovato un suo corrispettivo nell’eguaglianza reale tra le diverse comunità. Le classi sociali in possesso di un minore capitale economico e culturale si trovano ancora maggioritariamente nella comunità nera e in quella ispanica. La battaglia per i diritti civili è servita da volano per l’ascesa e l’allargamento della società dei consumi alle nuovi classi medie nere. Negli anni 70, le politiche economiche keynesiane hanno visto nell’integrazione della comunità nera le potenzialità per un nuovo allargamento dei consumi interni e dunque della domanda. L’affirmative action, è stata la traduzione legislativa delle lotte per i diritti civili, attraverso l’introduzione del principio di discriminazione positiva. In effetti, delle popolazioni danneggiate storicamente da pratiche sociali, culturali e istituzionali, discriminatorie e segregazioniste, vedevano riconosciuto il loro diritto al risarcimento, attraverso delle norme che introducevano procedure privilegiate, quote prestabilite, trattamenti specifici, che favorissero la piena integrazione ed il rapido recupero dell’handicap sociale subito. Questa strategia, abbandonata successivamente con l’arrivo della reaganomics, permise l’emergere di una classe media nera, di una nuova borghesia black. Paradossalmente, il gretto spirito comunitario ha più tardi introdotto la proliferazione delle identità comunitarie, presunte o reali (occorreva infatti essere riconosciuti come appartenenti ad una comunità vittimizzata per poter usufruire dei vantaggi dell’affirmative act), suscitando la rivalità tra comunità svantaggiate. In particolare si è insediato una sorta d’oligopolio che tende ad escludere le nuove comunità meno favorite, a non riconoscerle in quanto tali, per evitare di ridurre i vantaggi dovuti alla posizione di rendita offerta dalle pratiche di discriminazione positiva. In realtà, I limiti della battaglia per i diritti civili non sono dovuti alle forme di lotta impiegate ma ai presupposti teorici che le muovevano, ai limiti politici e culturali, alla gestione ispirata da gruppi religiosi cristiani, al loro carattere prettamente morale.

Nel corso degli anni 80 e 90, si sono sviluppate in Europa importanti lotte per i sans-papiers, attorno ai quali si sono raccolte gran parte delle famiglie politiche della sinistra, senza che emergessero divisioni sulle forme di lotta. Anzi, i gruppi più radicali, caratterizzati da una maggiore propensione alla violenza, si sono distinti tra quelli più accanitamente conseguenti nelle azioni d'appoggio ai clandestini, ai boicottaggi, alle occupazioni di luoghi, uffici amministrativi, centri di ritenzione e aeroporti, dove venivano realizzate le espulsioni (che nel lessico attuale verrebbero definite di disobbedienza, ma che all'epoca erano ancora percepite come pratiche tradizionali di lotta sociale). Al contrario, molti gruppi “nonviolenti” si sono caratterizzati per il fatto di limitare la loro azione al solo ricorso a procedure legali. Si palesa il dubbio che dietro l'ideologia della nonviolenza si celi, in realtà e sempre più, il tabù della legalità.

La nonviolenza attribuita : ovvero l’invenzione del successo della pratica nonviolenta
Gli esempi storici finora affrontati sono pertinenti. Si può discutere della loro portata, dei loro risultati effettivi: la vittoria della borghesia nazionale in India, accompagnata dalla costruzione di una società ultraviolenta e polarizzata socialmente; o ancora, l’emergenza d’una classe media nera negli USA che vede i suoi diritti rispettati, contrariamente a quanto avviene per il resto dei neri e degli ispanici di condizione proletaria o sottoproletaria. Si può dibattere della portata universale di queste lotte, ovvero del loro valore paradigmatico, della esportabilità o meno dei loro metodi oltre che dei loro contenuti (che abbiamo visto essere, gli uni e gli altri, assai modesti), ma incontestabilmente queste esperienze appartengono al patrimonio storico e culturale della tradizione che si definisce pacifista e nonviolenta.

Grossi problemi sopravvengono, invece, quando per dare forza al proprio discorso la letteratura nonviolenta cerca esempi storici altrove: nella rivoluzione komeinista che ha cacciato la scia di Persia in Iran, per esempio, oppure nella recente sconfitta di Slobodan Milosevic in Serbia, o ancora nella cacciata del dittatore Marcos dalle Filippine, tra gli zapatisti in Chiapas, con Solidarnosc in Polonia. O ancora quando addirittura si prova a spiegare l’arrivo al poter dell’ANC in Sud Africa con una presunta adesione ad una opzione politica nonviolenta, o quando si cita l’arrivo al potere del populista Chavez in Venezuela. Stranamente però, tra i diversi eventi evocati c’è un solo episodio che viene sistematicamente dimenticato: la “rivoluzione dei garofani” del 1975 in Portogallo. Forse perché quell’evento fu realizzato da militari, da comunisti che avevano applicato una strategia “entrista” nell’esercito, infiltrandolo, conquistando gran parte dei suoi quadri intermedi fino a decretare il giorno dell’insurrezione, del colpo di Stato. Un complotto rivelatosi incruento, viste le condizioni di decomposizione della società coloniale che caratterizzava il Portogallo dell’epoca. Non si sparò nemmeno un colpo di fucile, anzi i soldati sfilarono acclamati dalla popolazione con dei garofani infilati nelle canne delle loro armi, a dimostrazione che dei militanti rivoluzionari, dotati di un esercito, armati di una cultura che disdegna la nonviolenza, possono ritrovarsi vincitori senza bisogno di sparare un colpo. L’esatto contrario dell’India. A riprova del fatto che la natura violenta o nonviolenta di un evento dipende meno dalle convinzioni e dalle intenzioni dei soggetti che s’affrontano che dalle condizioni storiche che si presentano.

Per evocare in modo pertinente il contributo eventuale fornito dalla nonviolenza in episodi storici di sollevaione nazionale, lotta per l'indipendenza o in cambiamenti di regime, occorre quantomeno la compresenza di due elementi:

1) la presenza d'attori che teorizzino e pratichino in forma maggioritaria questa strategia. Tale circostanza è riscontrabile solo in India e negli Usa degli anni 60. Nelle altre circostanze citate, non vi è un solo movimento che abbia giocato un ruolo politico importante, che possa ritenersi nonviolento. Vi sono forze politiche, gruppi di pressione, blocchi sociali, partiti religiosi, eserciti guerriglieri, che grazie a contesti particolari in alcuni casi sono riusciti a conquistare il potere senza il bisogno d’organizzarsi violentemente (e certo non per edificare una società nonviolenta), ma usufruendo dell’appoggio o della neutralità di polizia e forze armate o del sostegno internazionale d’altri Stati ;

2) la realizzazione degli esiti prefigurati dalla strategia nonviolenta, ovvero la presenza di relazioni sociali nuove, fondate sul riconoscimento dell’altro, sulla parità e la simmetria reciproca. Insomma, la disparizione di rapporti sorretti da forme di dominazione e prevaricazione di natura sociale, economica, politica, sessuale, culturale, religiosa.

In nessuno degli esempi sopra citati si sono presentate queste condizioni. Per comprendere quanto è avvenuto risulta più utile fare ricorso a concetti come quello di “implosione” (crollo interno o implosione geopolitica) di “moto sociale”.

In Iran il regime dello Scia s’è decomposto sotto la spinta complessa di movimenti di massa interni, nei quali v’erano milizie armate e gruppi che praticavano attentati. Queste forze percepivano la modernizzazione autoritaria dello Scia come la cappa plumbea imposta dalla colonizzazione Occidentale e in particolare dagli USA sulla società. Il tutto è avvenuto in un tremendo bagno di sangue, con l’avvio immediato della guerra civile tra islamisti e gruppi della sinistra, poi sconfitti e costretti alle prigioni e all’esilio. Per non parlare della guerra decennale con l’Irak e degli effetti iperviolenti sul medio Oriente e sull’Europa dovuti alla diffusione del fondamentalismo schiita, solo recentemente scavalcato da quello di scuola walabita legato al fondamentalismo saudita. Milosevic ha perso le elezioni, non è stato scacciato da gruppi nonviolenti. Anzi, gruppi paramilitari hanno attaccato il parlamento dandolo alla fiamme nei giorni in cui il presidente serbo rifiutava di riconoscere il risultato elettorale. La destra nazionalista, che tanta parte ha avuto nella guerra in Bosnia e in Kosovo è sempre lì. La neutralità dell’esercito non va confusa con l’improvviso sbocciare d’una stagione nonviolenta. Le Filippine di Marcos, divenuto inviso all’establishement USA, sono state il teatro di scontri di piazza con spargimento di sangue. Assembramenti di popolazione, moti, manifestazioni e scioperi, insomma un conflitto a media intensità violenta non è sinonimo della migliore nonviolenza, che per altro nessuno reclamava. Gli zapatisti sono un esercito armato che il 1 gennaio 1994 ha dato vita ad una insurrezione con numerosi morti. Marcos porta un passamontagna per significare il suo status di combattente clandestino e gira armato di M16, non è il miglior esempio da invocare come icona della nonviolenza. Solidarnosc era un potentissimo sindacato-partito (finanziato con enormi risorse dall’Occidente) che raccoglieva nel suo seno la quasi totalità dell’opposizione al regime socialista polacco. Anche se ha praticato in prevalenza forme “ pacifiche ” di lotta, il suo programma politico non era nonviolento e tantomeno gli obiettivi realizzati (tra cui l’entrata nella Nato). Nel suo seno v’era di tutto, dagli ultraliberali, ai populisti cattolici, dai fondamentalisti religiosi, ai gruppi d’estrema destra, ai monarchici, con tracce persino di qualche “ democratico ”. L’ANC non ha mai introdotto nel suo programma la nonviolenza, ha semplicemente rinunciato alla lotta armata quando, durante l’epoca Gorbacev, si erano create le condizioni di una trattativa seria che prevedeva la liberazione di Mandela e l’avvio di un processo di superamento de l’apartheid, cioè quando l’essenziale del suo programma stava per compiersi. L’abbandono della lotta armata da parte di alcuni movimenti ha sempre corrisposto ad un passaggio a forme di lotta politiche di tipo tradizionale, ovvero legale, non certo nonviolento. È il caso dell’Ira irlandese, che ha rinunciato gradualmente alle armi quando, attraverso la sua ala legale, è pervenuta ad ottenere importanti obiettivi politici (e soprattutto si sono ridotti i finanziamenti della comunità irlandese residente negli Stati Uniti). Chavez è un ex paracadutista divenuto leader populista negli anni 90 dopo aver essere stato incarcerato per un tentato golpe. Di fronte alla perdita di credibilità della classe politica corrotta, ammantato della sua aureola di eroe, ha vinto le elezioni. Non è un bell’esempio di nonviolenza. Sarebbe come dire che Berlusconi è un nonviolento perché grazie alle sue televisioni usa metodi pacifici di persuasione e con questi ha ottenuto il consenso degli elettori.

Violenza o nonviolenza ? La virtù inesistente del modello unico
Il problema sollevato dal dilemma violenza/nonviolenza sta, in realtà, nel aver mal posto fin dall’inizio i termini del dibattito tra forme di lotta, trasformandole da strumenti, quali esse sono, in rivelatori ideologici, in mezzi intrinsecamente dotati di fini. È questo il rischio inevitabile che si incorre quando la politica è declinata sulla base di un credo etico, quando l’azione si risolve in una messa in forma della morale, qualunque essa sia. In fondo, da questo punto di vista quei pacifisti che a Genova alzavano le mani in segno di resa davanti alla polizia non sono diversi dai militanti del black bloc, che devastano sistematicamente dei simboli del capitalismo, tutto sommato secondari e irrilevanti, senza porsi minimamente l’idea di comunicare, alleare, allargare il fronte e costruire consenso attorno a se. Queste due realtà, solo in apparenza opposte, sono l’espressione di una condotta simmetrica dettata dal rapporto puramente etico col proprio agire. Ne deriva una forma di psicorigidità, un’autoreferenzialità estrema che mette in avanti la propria purezza, la propria coerenza, una sorta d’autocompiacimento estetico, l’accordo ossessivamente necessario, e in ultima analisi il solo che conta sempre, tra mezzi e fini che finisce per fare del fine un mezzo. La realtà non conta, il contesto storico, l’analisi dei processi vengono ignorati. La politica è uno specchio in cui rimirare la propria limpida nettezza. Pretesto per “ esprimere semplicemente se stessi ” come fa l’artista nel corso di una performance. Ciò che è veramente decisivo è il proprio comportamento, la propria perfettibilità etica. È il mondo che deve modellarsi al proprio credo. Si tratta di una purezza totalitaria, intollerante, chiusa, ben altra cosa della contaminazione tanto decantata. La nonviolenza (come l’iperviolenza contro le merci ma non le persone. Quelli del blocco nero sono in questo altamente etici) da esercizio di virtù diventa esternazione del vizio, un desiderio di sublime che fa “ peccare d’autocompiacimento ”, nutrendo i pacifisti d’una saccente autosufficienza che li porta a considerarsi “ più giusti e virtuosi degli altri ” e dunque “ refrattari al dibattito onesto e pragmatico ” a tal punto d’accomodarsi in una “ ideologia morale che possa evitar loro un’aperta considerazione delle alternative ”. L’importante è testimoniare, testimoniare se stessi in pratiche che sempre più si riducono ad “ atti ritualizzati, infrazioni garbate, ad una minimizzazione estrema del rischio”[8]. In questo senso è pertinente l’espressione impiegata da Ward Churchill nel suo libro intitolato: “ Pacifismo come patologia ” della volontà.

L’errore sta nel pensare che esista un modello unico e virtuoso, assoluto, di lotta che possa essere valido comunque e dovunque, a seconda delle latitudini e delle epoche (come pensavano le Brigate Rosse o altre organizzazioni comuniste combattenti). In questo senso, nonviolenti e violentisti s’equivalgono. Gorge Lakey ribadisce una ovvietà quando ricorda che “ la violenza non è il marchio della radicalità o del fervore rivoluzionario perché è usata costantemente per gli scopi più disparati ”[9]. Infatti, filosofi come Michael Walzer, partigiano della teoria della “ guerra giusta ” (Guerres justes et injustes, Belin, Parigi 1999) spostano il dibattito sul piano della legittimità e dell’illegittimità delle ragioni che la motivano. Non esiste una forma prefigurativa, un metodo che possa riassumere in se il fine, il modello di società futura. E se è questa l’ambizione che riassume la pratica nonviolenta, occorre riconoscere il suo sistematico fallimento storico. Di contro, è possibile pensare alla nonviolenza come ad un ulteriore risorsa da poter impiegare in circostanze e contesti che facciano di questo strumento un’arma opportuna. La scelta delle forme di lotta è questione complessa e articolata da affrontare secondo i momenti e le condizioni storiche. La migliore delle strategie è quella fondata sulla scelta ponderata delle tattiche più opportune ed efficaci a seconda delle esigenze e dei compiti politici. Senza preclusione alcuna. Ciò detto, non si può ignorare che sul piano storico l’uso della forza, con il suo ampio ventaglio di sfumature, dalle più sottili alle più intense, s’è mostrata sovente una risorsa decisiva. Stati, nazioni, popoli, regimi produttivi, ordini sociali, sistemi di dominio, rivoluzioni liberatrici, si sono succeduti e confrontati attraverso scontri il più delle volte senza mezzi termini. La storia è una immensa valle ricoperta di ossa, scriveva Hegel. Occorre pensare a dispositivi di riduzione della violenza, a forme che ne riducano il più possibile il ricorso, che ne attenuino la portata, che ne canalizzino le forme, ma non si può esulare da un confronto realista con questo problema.

La proposta nonviolenta e il suo inadeguato contributo alla critica del potere
Una delle ragioni forti poste a fondamento della scelta nonviolenta è la rinuncia ad esercitare forme di potere. La nonviolenza più radicale e integrale, rivendica la sua totale asimmetria rispetto all’esercizio del potere. Essa non si pretende un contropotere ma, rifiutando ogni forma di simmetria e concorrenza, si vuole altro dalla logica del potere stesso. Secondo i suoi sostenitori, attraverso il metodo nonviolento si otterrebbe con successo il passaggio dal potere esercitato “ su ” (dominazione), al potere esercitato “ con ” (cooperazione con gli altri) oppure al potere “ dall’interno ” (forza psicologica e spirituale)[10]. Ma il ricorso ad un brillante escamotage sintattico non risolve il dilemma del potere, la natura della sua origine. Anche un potere che fuoriesce solamente dal l’interno, e che con altri linguaggi potremmo chiamare fine dell’acquiescenza, termine della dominazione introiettata, presa di coscienza, emancipazione, fuoriuscita dall’alienazione, conquista della coscienza per se, assunzione del principio d’autonomia, non sorge per semplice germinazione spontanea, ma è frutto d’un incontro con l’esterno, con l’altro da se. E questo processo di scambio non è esente dal rischio di subire condizionamenti imposti da forme sublimali di potere: il potere simbolico, il potere carismatico, forme di legittimazione che captano la volontà ben più del corpo, grazie all’ineguaglianza economica, alla dissimetria delle competenze e dei saperi, che stabiliscono differenze e gerarchie. Non è sufficiente sostituire delle particelle grammaticali per risolvere l’inevitabile momento del contrasto, della contrapposizione tra poteri diversi. Come evitare di soccombere, quando un’azione fondata sul potere “dall’interno” o dal potere “con”, incontra nel suo cammino l’ostacolo del potere esercitato “su” e dunque contro ? Che fare quando il rapporto di forza si fa fisico e chi sta lottando non vuole semplicemente testimoniare se stesso, ma innanzitutto non vuole soccombere? “ Non collaborare ” è la premessa dell’azione, non il suo esito. Disobbedire è solo il primo passo di un lungo percorso, è ancora un momento reattivo sprovvisto d’autonomia. Disobbedire non basta.

Nonviolenza o legalitarismo ?

In occidente l'impiego più consistente della nonviolenza è rivendicato dai cristiani che guardano alle persecuzioni dei loro primi adepti come ad un momento fondatore della pratica nonviolenta. Il “martirio” di Massimiliano, il primo obiettore di coscienza, e da loro percepito come un glorioso esempio. Non abbiamo qui lo spazio sufficiente per indagare la reale pertinenza della nozione passiva di martirio con quella attiva di nonviolenza. Certo è che questa sovrapposizione la dice lunga sui sottintesi culturali che le differenti accezioni della nonviolenza racchiudono. La concezione sacrificale del martirio, dietro la sofferenza terrena della sua prova, racchiude una compiaciuta idea di piacere masochista suscitata dalla prospettiva dal trapasso definitivo nel regno dei cieli. Subire e soffrire, più che un atto fisico di resistenza umana, è una prova di solidità religiosa, un atto di fede intimamente sorretto da un segreto piacere perverso. Anche se la storia della Chiesa come dei movimenti religiosi riformatori e protestanti, oltre che la testimonianza delle sacre scritture, della teologia e del diritto canonico, rappresentano delle fonti ambivalenti per la tradizione nonviolenta, l’intreccio tra ideologia e pratiche nonviolente con la cultura religiosa resta un fatto avverato. Lo è a tal punto che la distinzione introdotta da Lutero tra la violenza individuale, da condannare, e quella statale o collettiva, da accettare per l'interesse della comunità, resta a tutt’oggi il vero nucleo concettuale che ispira l’essenza della cultura nonviolenta. Ovvero un’ideologia che doma l’autonomia degli individui, li priva del loro libero arbitrio sottomettendoli alla legge del monopolio statale.

Ha origini illustri e lontane l’atteggiamento di molta parte dei nonviolenti italiani, i quali piuttosto che rivolgere il loro impegno verso la delegittimazione di quei poteri forti che possono avvalersi della protezione e dell’esercizio della violenza legittima, privilegiano lo zelo discriminatorio nei confronti di chi, lottando contro quei poteri, ricorre a strategie diverse. In effetti, troppo spesso in Italia viene chiamata nonviolenza un tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto della violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70. Il rigetto della violenza contro il potere, violenza venuta dal basso, ha segnato questa cultura addomesticata sbilanciandola verso un atteggiamento fin troppo compiacente con le istituzioni, titolari di quella violenza legittima esercitata dall’alto. In questo modo s’è radicata l’idea che legalità e la nonviolenza fossero, in fondo, la stessa cosa o comunque ch’esse si trovassero dalla stessa parte dello schieramento. Un malizioso malinteso che ha fatto della nonviolenza e del pacifismo un comportamento subalterno, domesticato, fondamentalmente acquiescente all’ordine costituito.

È questo il grande “malinteso” che egemonizza la nonviolenza italiana e che fa di molti pacifisti dei pacificati o dei pacificatori. Spetta ai militanti più sinceri e autentici di questa corrente risolverlo.


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[1] Le Courrier d’information, n. 246, Martedi 19 giugno 2001.

[2] Un isterico Vittorio Agnoletto e un fin troppo incauto Fausto Bertinotti.

[3] Cf. Gandhi, la sagesse de la non-violence, Jean-Marie Muller, Desclée de Brouwer, Parigi 1994.

[4] George Lakey, La Spada che guarisce: una difesa attiva della nonviolenza, in http://www.lostraniero.net, p. 2. Si tratta di un testo scritto in risposta ad un volume di Ward Churcill, Pacifismo come patologia: Riflessioni sul ruolo della lotta armata nel Nord America.

[5] Ibidem, p. 4.

[6] Ibidem, p. 4.

[7] Ibidem, p. 2.

[8] Ibidem, p. 2.

[9] Ibidem, p. 16.

[10] Ibidem, p. 18.

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