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Milano - L’eterna resistenza del Leoncavallo
by dall'unità Saturday, Oct. 15, 2005 at 12:32 PM mail:

L’eterna resistenza del Leoncavallo.

Milano - L’eterna re...
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È vero che tutto si dimentica, ma credo che a questo punto sarebbe difficile dimenticare il Leoncavallo. Cioè «quelli del Leonka», le «mamme del Leoncavallo» e soprattutto lo «sgombero del Leoncavallo». A Milano, divenuta la peggior città d’Italia, dove c’è poco da ricordare, salvo i nostri affetti, dove la cosiddetta «sfera pubblica» s’è annichilita nel niente dei consumismi, dell’immoralità, della fretta e persino della politica, il Leoncavallo resta e quelle espressioni sono diventate totem di un trentennio e pietre miliari della resistenza. Quale resistenza? Alla patina grigia dei tempi prima che ai poliziotti invasori, alle sconfitte culturali prima che alle ruspe, alla trovata di fagocitare l’alternativo per farlo rendere in moneta contante più che alle ingiunzioni dei tribunali.
Il Leoncavallo resta, vivo al punto da poterci raccontare di un’altra minaccia e di un altro sgombero. Ammesso che si faccia. La data c’è: il 18 ottobre gli ufficiali giudiziari si presenteranno alla porta, illustrata da variegati graffiti, e presenteranno le carte, pretendendo il conto, cioè terreni e stabili dalle parti di Greco, cioè tra due stazioni ferroviarie, dietro la Bicocca, a poche centinaia di metri (in linea d’aria) dal teatrone degli Arcimboldi, dismesso dalla Scala. Terreni e stabili che appartengono a società il cui amministratore delegato si chiama Andrea Cabassi, della famiglia dei Cabassi, storicamente i «sabiunatt» (cavatori di sabbia) di Milano.
Reggerà un’altra volta all’urto il Leoncavallo? Probabilmente sì, probabilmente un accordo si troverà, nel segno della permuta di quei terreni con altri. Il Leoncavallo continuerà a recitare la sua parte, come da trent’anni, dopo la prima recita, un altro 18 ottobre, nel 1975. Bisognerebbe tornare a quegli anni, per immaginare ragazzi che saltano i muri di un’ex officina farmaceutica, in via Leoncavallo, dietro il deposito dei tram, in una zona di città proletaria e grigia, oltre piazzale Loreto, al Casoretto.
In quelle strade buie, si consumò un delitto: vennero assassinati due giovani, Fausto Tinelli e Iaio Iannucci. Era marzo, faceva freddo, due giorni prima era stato rapito Aldo Moro. Il Leoncavallo divenne Centro sociale Fausto e Iaio. Più di prima divenne il luogo di una alternativa, faticosa e pericolosa, alla politica delle istituzioni. Di sinistra e d’ultra sinistra, autonomi o riformatori di un certo stampo (il primo nucleo del Leo si educò alle future imprese dentro le sale di un oratorio allestendo una scuola popolare), preglobalisti, uniti nello spirito pedagogico, attorno ai casi politici internazionali e nazionali, alle questioni sociali e della cultura, allestendo gruppi di intervento sui problemi della scuola, contro la repressione, sul carcere, sulla droga, sulla parità, sul lavoro, sull’ambiente, contro il nucleare, sulla Palestina, sull’apartheid, su tutto. Più la mensa e la birra. Più i murales, che in Italia nascevano lì, su quei muri umidicci e scrostati, tenuti in piedi dalla generosa manovalanza dei militanti.
Di tanto in tanto era il corteo. In coda giungevano i «leoncavallini», temuti, attesi, blindati, rumorosi, chiassiosi, colorati. La violenza massima era quella del suono: i diffusori sparavano ritmi nuovi e vecchie canzoni, come una Bella ciao a tempo, forse, di rock. Ma quelle erano le esternazioni. Dentro le mura del Leoncavallo si teneva la mensa e si ascoltavano i concerti, si faceva la guerra al caroprezzo, si moltiplicava la fantasia, che si esercitava in forme che si volevano socialmente utili: contro lo spaccio, ad esempio, o per gli sfrattati.
È ovvio che a un certo punto della sua prima storia il Leoncavallo fosse chiamato ad esercitare la sua fantasia anche «contro il terrorismo», perché nell’ombra del Casoretto, nella disposizione di chi non voleva sbattere porte in faccia a nessuno, i terroristi si fecero vivi. Si cadde nell’ambiguità dei «compagni che sbagliano». Ci fu anche qualche arresto da quelle parti e fu un colpo, che diede fiato alle trombe degli oppositori, al grido rituale di battaglia: «sgomberare il Leoncavallo». Toccherà alla giunta guidata da un socialista, Paolo Pillitteri, cognato di Bettino Craxi, sgomberare il Leoncavallo: nel 1989, il giorno dopo ferragosto, a città chiusa, nell’anno del muro di Berlino, cadrà anche il Leoncavallo. «Battaglia all’alba», titolerà l’Unità. Risultato: ventisei arresti e cinquantacinque denunce. Risultato a distanza: la rioccupazione del Leoncavallo, la ricostruzione sulle macerie. Poi arrivò Formentini sindaco, «Sono dei randagi». Arrivò Umberto Bossi, «Se non ci pensa il governo manderò un’ondata di uomini decisi fino al secondo piano». Il secondo piano, ricordava Daniele Farina, uno dei fondatori e oggi consigliere comunale, era stato demolito quattro anni prima. Il Leoncavallo non resistette ai celti in salsa padana, ma trovò un’altra sede, alla Baia del re, in via Salomone, di fronte all’autoparco della mafia, all’estrema periferia est. Un passaggio durato centottanta giorni. Così che, settembre 1994, provarono un’altro sgombero e una occupazione, per così dire, consensuale. Questa volta i leoncavallini si ritrovarono in via Watteau, in quella terra dismessa, terra di nessuno di proprietà però del signor Cabassi. Che li accolse, ma che adesso chiede la restituzione o almeno una permuta con altre aree, anche di minor valore, valore che sarebbe comunque di decine di milioni di euro. Come vuole la legge. Ma il problema non è di legge. Albertini, all’insediamento a Palazzo Marino, nel 1997, annunciò: «Sarò il sindaco di tutti i milanesi, da Tronchetti Provera al Leoncavallo»... Lo è stato di Tronchetti Provera. Degli altri, dai leoncavallini a quanti il Leoncavallo rappresenta, no. Al punto che siamo da capo, con una minaccia di sgombero, mentre una soluzione era possibile, nello scarso interesse però dell’assessore competente, il Brandirali che vide nascere il centro sociale, dalla sponda filocinese di «Servire il popolo». La tepidezza amministrativa è grave e dice qualcosa che va di pari passo con i tagli della finanziaria: dice quanto peso abbia la cultura (nel senso ovviamente proprio e nel senso lato della solidarietà, dell’incontro, della reciproca conoscenza, dell’identità e del rispetto comune) nella politica e nel governo dei nostri tempi, certo meno di un mattone (anche se il mattone avrebbe la sua propria alternativa). Al Leoncavallo, più normale di una volta, meno antagonista, come tutti, si continua a fare musica, mostre, teatro, giochi per i bambini, a comunicare, ad allestire mense e birrerie, a insegnare vita comunitaria, persino a candidarsi come gestori del vicino Arcimboldi, abbandonato e vilipeso (sarebbe una cattiva idea?). L’incertezza di martedì e il fantasma di un esecutore di sfratti che si materializza non disarmano i leoncavallini. Che si addestrano. L’esercitazione antiterrorismo (vedi Roma e poi Milano) diventa in via Watteau «simulazione delle procedure di emergenza». Mentre s’annunciano le «primarie antiprobizioniste», perché Prodi non si prenda tutto. Naturalmente durante la serata reggae.



















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