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Serra: “Vallanzasca era un uomo coraggioso
by LA SERRA DI ACHILLE Sunday, Nov. 07, 2004 at 8:51 PM mail:

LA LETTERA DI GABRIELLA, VEDOVA DEL BRIGADIERE D’ANDREA FREDDATO NEL 1977

«Vallanzasca massacrò mio marito: perché in tv questo assassino l’hanno definito coraggioso?»


Riceviamo e pubblichiamo.
Gentile Direttore, sono la vedova del Brigadiere Luigi D’Andrea, ucciso da Renato Vallanzasca al casello di Dalmine (BG) il 6 febbraio 1977. Domenica scorsa ho seguito la trasmissione televisiva “Blu notte” durante la quale, oltre a rivedere il filmato in cui mio marito giaceva a terra accanto al suo giovane collega, ho udito la seguente frase, proferita dal Prefetto di Roma Achille Serra: “Vallanzasca era un uomo coraggioso” (sic!).
Ora io Le chiedo di aiutarmi a capire il significato della parola “coraggio”. Se per “coraggio” si intende la scarica di adrenalina che si avverte prima di ogni azione che comporti un rischio, allora tutti i delinquenti, ladri, rapinatori e assassini lo sono. Se con “coraggio” si vuole intendere il senso di “sfida alla società”, allora leggendo la cronaca nera dei quotidiani italiani dovremmo tirare un sospiro di sollievo, nel vedere quanti “coraggiosi” ci siano in giro. Se invece per “coraggio” si intende quello, per fare un esempio, del Generale Dalla Chiesa, dei giudici Falcone e Borsellino, o di tanti altri il cui nome è già stato dimenticato, o anche di quel ragazzo che l’estate scorsa salvò dall’annegamento un perfetto sconosciuto al prezzo della propria vita, beh, allora domenica sera la parola “coraggio” usata dal Prefetto Serra all’indirizzo di un criminale del livello di Vallanzasca è stato un insulto alla memoria di tanti veri uomini e donne coraggiosi.
Amaramente io constato ogni giorno di più che “coraggio” ormai è quello che ci vuole per continuare a vivere in questo Paese conservando un minimo di fiducia, di speranza e di buonsenso. La prego, mi aiuti a fare chiarezza.
Gabriella Vitali vedova D’Andrea
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Bergamo, 1 novembre 2004

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innanzitutto...
by ken parker Sunday, Nov. 07, 2004 at 9:33 PM mail:

innanzitutto a dalmine renato vallanzasca non c'era proprio, e' stato condannato per altro omicidi ma non per quello, attribuito ad altri elementi della sua banda.
e comunque era veramente un uomo molto coraggioso ed anche profondamente leale.
fu ferito gravemente, ne porta ancora addossoi pesanti segni, perche' durante l' evasione da s.vittore, invece di scappare, si fermo' a soccorrere corrado alunni di "prima linea", a terra gravemente ferito.
vallanzasca era oggettivamente dei nostri, i poliziotti sono oggettivamente dall' altra parte.
se poi qualche poliziotto intelligente come serra "rende gli onori" ad un nemico, tanto di cappello.
ma poi, che cazzo c'entra tutto questo su indymedia ?

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vallanzasca
by keoma Sunday, Nov. 07, 2004 at 9:54 PM mail:

Vallanzasca racconta l’ evasione da S. Vittore by il fiore del male Thursday, Oct. 14, 2004 at 4:15 PM mail:

da Il fiore del male di Renato Vallanzasca e Carlo Bonini

Il piano (dell’evasione n.d.c) non era particolarmente complesso. L’idea era quella di fare arrivare delle armi in carcere. Il resto sarebbe venuto da solo. Per avere il necessario trovai senza eccessiva difficoltà un cavallo. La guardia era disponibile. Non mancavano neppure un buon numero di brigatisti, con un nome per tutti: Corrado Alunni. Senza contare che San Vittore, come e più di tutti i grandi carceri, è un porto di mare. Quindi, in quei tre mesi, sempre per processo, arrivarono in sezione, per fermarsi più o meno a lungo, Turatello, Marco Medda, Mirabella.... Insomma, il gotha della mala milanese. Di fatto, in carcere, erano un po’ in sbattimento. Eravamo in troppi,pericolosi, tutti insieme. Il cavallo mi disse che quello sarebbe stato il periodo meno adatto per introdurre qualsiasi cosa. Li stavano sottoponendo a un sacco di perquise, soprattutto prima di montare nella nostra sezione. Quindi... meglio lasciar passare il momentaccio. Di lì a poco parecchi compagni sarebbero partiti, come pure i miei soci. Tornata la calmasi sarebbe potuto fare tutto bene. Non era il massimo, proprio perché volevo che riuscissero tutti ad approfittarne. Ma quella era la situazione, non si poteva che rimandare. Dissi dunque a quel paio di persone cui tenevo particolarmente di partire tranquilli. Sarebbero dovuti tornare entro un mesetto e promisi che avrei sistemato tutto per il loro ritorno. Con lo svuotarsi dei raggi arrivarono le armi. Il primo pezzo lo imboscai murandolo dietro le piastrelle del cesso. Il secondo i fu consegnato invece quando Pinella, rientrato, venne messo in cella con me. Ricordo perfettamente.

La guardia arrivò davanti alla cella e, mentre allungava il braccio attraverso lo spioncino, mi chiamò: «Vallanzasca, tenga ’sta roba». Proprio da fuori di testa. Neppure si era preoccupato di avvolgerlo in un giornale o in uno straccio. La mano della guardia roteava dentro la cella tenendo il cannone per la canna. Eravamo seduti per la cena e per poco a Pimpi non venne uno sbocco. La guardia ripetéil movimento una seconda volta. E mi ritrovai con due pezzi tra le mani. Tonino non stava più nella pelle. Evidentemente, non era convinto che sarei riuscito a concludere positivamente la missione. Volle un’arma e se ne andò al cesso, per evitare di essere visto da qualcuno cui fosse venuta l’idea di affacciarsi all’improvviso allo spioncino. In preda all’euforia, all’interno del bagno, Pinella cominciò a mimare l’evasione che, nell’attesa dei rientri, arrivò all’ultimo giorno utile fissato per il piano: il 28 aprile. Alle 13.20, durante l’ora d’aria.

Quella mattina mi limitai a dire a tutti che avrebbero dovuto scendere al passeggio con le scarpe da tennis, perché si doveva discutere sulla forma di protesta per risolvere alcuni problemi che si erano verificati in carcere. Infatti, a parte il sottoscritto, Colia, Antonio Rossi, e Micio, c’era Corrado che avrebbe deciso a chi dirlo. Ci fu così la new entry. Quel culo rotto di Daniele Lattanzio. Era arrivato la sera precedente. Sembrava destino: se c’era in atto un preparativo di evasione, quello si materializzava in tempo senza saper nulla in anticipo. Gli altri detenuti ignoravano tutto. E del resto avevo ritenuto inutile informarli. Già ne erano a conoscenza in troppi. Tanto, a che sarebbe servito? L’unica cosa che contava era esser portati fuori e io quello stavo facendo.

Il piano procedeva secondo il programma. Pinella e io, con la scusa che ormai stava uscendo il caffè, ci facemmo aprire la cella per ultimi, anche se in realtà ci trovavamo in quella che avrebbe dovuto essere aperta per prima. A mano a mano che gli altri scendevano venivano messi al corrente. Una volta rimasti soli in sezione, mi feci aprire e passata regolarmente la perquisa con il cannone piazzato tra le palle, me ne andai nel corpo di guardia con il mio bravo caffè bollente. Si mise a parlare con il brigadiere che faceva da caporeparto. Una sceneggiata. Anche questa studiata nei dettagli. «Hai sempre un culo della Modonna. Ogni volta che c’è un problema da risolvere ci sei sempre tu in servizio. Dai, molla sta cazzo di Gazzetta e scendi con me al passeggio che dobbiamo parlare delle infamità che state facendo con la posta». Con la proverbiale flemma di chi non ha voglia di fare un cazzo, e un po’ contrariato, il brigadiere si alzò e mi venne dietro.

Siccome era indispensabile che Pimpi ed io si scendesse assieme, sapendo come prenderlo dissi al brigadiere: «Dai, fai aprire anche Colia, almeno ne discutiamo per bene. Siete qui in metà di mille... o devo pensare che due duri così ti mettono la strizza al culo?». Come mi aspettavo, ’sto pampurio, affermando che lui non aveva paura di nessuno, disse di aprire anche Colia. E tutti insieme, il brigadiere e io davanti a un codazzo di guardie e Pimpi sul fondo della fila, scendemmo lungo le brevi rampe di scale che portavano al piano terra.

Ora avevano pochi minuti. Tirammo fuori i cannoni e ci ritrovammo con una decina di ostaggi. Lui in cima alle scale, io in fondo e loro in mezzo. Feci un breve e minaccioso discorsetto a tutti, al brigadiere in particolare.

Pinella rimase a controllare gli agenti di custodia. Vallanzaca, la pistola puntata alla schiena del brigadiere, sorretto come se stesse male, arrivò nel cortile dove gli altri detenuti erano al passeggio. Il brigadiere fece quello che gli era stato ordinato. Chiamò la guardia nella garitta protetta da un vetro antisfondamento: «Vieni qui a darmi una mano! Non vedi che si senta male?»... Come quello uscì, lo puntai e, in meno di quindici secondi, avendo aperto il cancello dei passeggi liberando tutti gli altri ragazzi. Diedi la terza pistola che avevo a Luigi Lattanzio e i tre coltelli ad altrettanti scatenati. Gli altri si armarono con spranghe di ferro e attrezzi da muratore Dissi quindi a tutti di spogliare le guardie e di indossarne le divise. Io e Pinella dovevamo uscire in fretta, mentre loro, dovendo aspettare che noi gli si aprisse la strada, avrebbero avuto tutto i tempo di travestirsi.

Erano in sedici e contavano sul vantaggio che gli avrebbe garantito la confusione. Tra loro anche Corrado Alunni,, riconosciuto leader di Prima Linea e il nappista Paolo Klun. Ricorrendo alla tecnica, tanto cara agli sbirri, del bastone e della carota, mettemmo in mezzo il brigadiere. Io minacciavo stragi inenarrabili se fosse andato storto qualche cosa e non ce l’avessimo fatta ad uscire. Pimpi rassicurava il briga: «Dai, Renato, non c’è bisogno di strapazzarlo, : ha capito che qui si muore tutti quanti. Vedrai che si comporta bene. Vero brigadiere?».

Il brigadiere assicurò che avrebbe eseguito le istruzioni alla lettera. Primo della fila, avrebbe fatto aprire ai due detenuti tutti i cancelli che separavano il cortile del passeggio dall’ingresso principale del carcere in via Filangieri.

Ci aprirono un cancello dopo l’altro. Avanzavo con Tonino a ruota e a ogni cancello superato, dopo aver preso un altro ostaggio, mettevamo la mandata in modo che tutti gli altri potessero seguirci senza trovare ostacoli. Passammo nel corridoio degli avvocati, sapendo che a quell’ora lo avremmo trovato deserto. L’unica difficoltà rimaneva il doppio cancello prima dell’ingresso. Straripava sempre di guardie, soprattutto durante i turni di mensa. Ma come vidi che l’addetto lo stava aprendo per far entrare un collega, con un paio di spintoni fui dentro. Feci scattare la serratura automatica del secondo cancello e mi precipitai nella portineria senza curarmi dei presenti. Sapevo infatti che alle mie spalle c’era Tonino. La pistola l’avevo nella tasca del giubbotto. Andavo a passo svelto, ma non di corsa. Incrociò un avvocato che lo conosceva. Era appena entrato in carcere con un magistrato per un interrogatorio. Mi guardò stupito, ma dopo una mia occhiata, credo eloquente, si rimise a parlare con il giudice. Arrivai quindi alla tappa finale. E non ci fu nemmeno bisogno di tirare fuori l’arma. La guardia dell’ultimo cancello, intenta a discutere con uno dei suoi, mi degnò a malapena di uno sguardo e spalancò al volo. Con tutto quel via vai doveva essere un riflesso condizionato. Tra me e la libertà non c’erano più ostacoli.

Vallanzaca decise allora di neutralizzare l’ultimo piantone. Quello che stazionava alla porta principale. Lo afferrai per la collottola e lo tirai all’interno del portone. L’avevo preso per le spalle feci per disarmarlo, ma la fondina era vuota. Era un altro napoletano, scansafatiche. Mi riconobbe subito e mi disse : «Rena’, tengo famiglia . U’cannone non ce l’ho. Pesa assaie». Ci sarebbe stato da ridere, se non per il particolare che su quel cannone fidavo molto. Un pezzo in più in certi momenti fa comodo. Lo feci inginocchiare nell’androne con la faccia al muro: «Se ti giri che sono ancora qui, tua moglie dovrà crescere da sola due orfani...». E feci capolino sul portone.

Mentre Vallanzasca aveva raggiunto l’esterno del carcere, i quattordici detenuti del passeggio avevano cominciato a risalire la teoria dei cancelli forzati dal passaggio di Vallanzasca e Colia. Affacciatomi vidi subito due auto dei grippa, che poi risultarono la scorta del magistrato che avevo incrociato uscendo. Erano ferme all’angolo del piccolo bar di via Filangeri, in cui i familiari dei detenuti confezionano il pacco da consegnare al colloquio. Solo uno era rimasto al volante, mentre tre erano scesi e parlavano tra loro. Attraversai la strada e mi fermai sul marciapiede di fronte all’ingresso del carcere, a una ventina di metri di distanza dalle due auto. (nella foto la freccia rossa indica il portone centrale dal quale uscì Vallanzasca ed i giardinetti di fronte)

Doveva aspettare che gli altri lo raggiungessero, almeno Colia e Lattanzio. Affrontare i grippa da solo , con quel pistolino che quasi spariva nella mano, non sarebbe stato igienico. Era pur sempre una calibro 9, ma avendo avuto l’esigenza di farla entrare per nasconderla, avevo chiesto che fosse di piccole dimensioni. Certo, sparava e faceva molto male anche quella. Ma l’impatto psicologico del vedersi minacciato da quel ninnolo poteva non essere terrorizzante. Con due pezzi in mano e mettendoli in mezzo, avrebbero certo avuto meno voglia di fare qualche colpo di testa.

Mai due tardavano. Dal mio punto di osservazione, vidi che tutti avevano raggiunto la portineria. Ma invece di cominciare a uscire, si attardavano a prendere in ostaggio tutti quelli che arrivavano. Per ben due volte attraversai la strada per chiamare fuori almeno uno di quelli con il cannone. Finché, mentre per la seconda volta si trovava al centro della strada, percepì un colpo di pistola. Arrivava dall’interno del carcere. Guardai subito le reazioni in strada e vidi che un solo carabiniere aveva alzato la testa . probabilmente lo scoppio si era confuso con i rumori dell’intenso traffico. Poco dopo però si sentirono altri tre colpi di pistola. In rapida secessione. Lo scarafone ormai era fatto.

I carabinieri misero mano alle armi. E a capire cosa stava accadendoli aiutarono le prime sagome che affacciavano al portone d’ingresso. Cominciò il finimondo. Vallanzasca era l’unico ad essere già in strada, sufficientemente distante dall’entrata del carcere. E con quel giubbottino elegante, camicia e foulard al collo lo avevano confuso per un passante. Un caramba cominciò a urlare di mettermi al riparo. Avrei potuto allontanarmi tranquillamente, ma significava mollare gli altri che erano rimasti inchiodati, farli arrestare tutti senza neanche che avessero messo il naso fuori. Decisi la sola cosa giusta da fare. Attraversai la strada di corsa e cominciai a urlare anch’io: «Prendete gli ostaggi, bisogna uscire alla svelta!»

Era di nuovo all’interno del corpo di guardia. Recuperai quel simpatico napoletano simile ad un ippopotamo che avevo lasciato in ginocchio. Era ancora là come l’avevo messo. Lo presi per il bavero e me lo tirai appresso mentre bestemmiava: Azzz, che sfaccimme e’jurnata. Quindi tornai in strada, questa volta coperto dalla voluminossissima sagoma del mio ostaggio. «Se volete uccidere un innocente, sparate pure» urlai. Gli spari cessarono di colpo de dissi subito agli altri di cominciare a correre sfruttando la nostra copertura Uno dopo l’altro uscirono undici ragazzi, ma siccome dovevamo essere in diciassette, che è veramente un numero sfigato, mi attardai ad attendere gli altri che non si vedevano. Non passarono più di venti secondi, che però ci sarebbero costati cari. Non potevo correre liberamente come facevano gli altri. Per coprirmi la fuga, camminavo a ritroso, obbligando il mio ostaggio a fare altrettanto. Funzionò per un centinaio di metri, ma come il ciccione inciampò e cadde, sembrò il segnale che aspettavano, fu la festa di Piedigrotta.

Vallanzacca ora correva. Antonio Rossi era già stato colpito. Impugnava uno dei tre coltelli a serramanico distribuiti al passeggio. Era riuscito a fare solo un a decina di metri. Lo avevano abbattuto nei giardinetti del vicino Beccaria Vallanzasca proseguì senza voltarsi, finché non svoltò l’angolo di via degli Olivetani, mentre il rumore assordante delle sirene anticipava la rapidità con cui il carcere stava per essere circondato. Fu allora che si accorse che sull’altro marciapiede stava correndo Corrado Alunni, armato del secondo serramanico.

Gli gridai di attraversare la strada Dal mio lato avrebbero avuto la copertura anche della mia pistola Ma soprattutto non sarebbe stato sotto il tiro dei mitra che facevamo fuoco dal muro di cinta. Alunni attraversò via Giambattista Vico. Ma invece di proseguire la corsa fino a trovare uno spazio sufficiente per superare le auto in sosta, si attardò a tentare di passare tra due auto posteggiate troppo vicine. Errore fatale quello del capo di Prima Linea. Un colpo lo raggiunse allo stomaco. Strammazò in terra in un lago di sangue, accanto a una 125 blu coperta da un telone.

Arrivai che era appena caduto. Mi piegai su di lui e lo afferrai per un braccio: «Alzati, Corrado, dai che ce la facciamo». Lui si comprimeva il ventre con le mani, dimenandosi, perché poche ferite sono dolorose come quelle nello stomaco. Aveva la voce straziata: «Vai, non ce la faccio. Scappa e buona fortuna». Mi rialzai: «Okay, buona fortuna anche a te, ci vediamo». Ma forse la frase non la finii neppure. Non so quale delle tre cose percepii per prima, se il carabiniere che a non più di sei metri puntava contro di me la pistola impugnandola con tutt’e due le mani, il colpo secco dell’arma, o la terrificante mazzata.

Il colpo lo aveva raggiunto alla testa, nella parte alta della fronte, all’attaccatura dei capelli. Andai a sbattere contro il muro, ma rimasi in piedi. Avevo la testa che era una giostra. Tutto mi girava intorno vorticosamente. Ma barcollando ebbi ancora la forza di fare qualche metro. Avevo la sensazione che le montagne russe in cui mi sembrava si fosse trasformata la strada andavano spianandosi. Riuscivo anche a correre. Ripetevo a me stesso: «Dai Renato, che ce la fai...ce la devi fare».

A fermarlo fu un secondo, decisivo colpo, esploso dal muro di cinta. Renato si afflosciò come un sacco vuoto La perizia stabilirà che era stato sparato dalla guardia sulla cinta. Il colmo della sfiga. Un colpo partito da un centinaio di metri era rimbalzato sul muro e mi si era conficcato nella parte alta della nuca.

Ora Vallanzasca se ne stava immobile sull’asfalto. Perdeva molto sangue, che gli rendeva quasi irriconoscibile il volto. Non credo dia aver mai perso conoscenza, anche se sembravo morto. Il colpo alla testa mi aveva paralizzato. Non riuscivo a muovere nulla se non le palle degli occhi. Ricordo interminabili minuti di caos in un concerto insopportabile di sirene. Finchè non sentii una fitta all’osso sacro. Una tremenda scarpata di uno che non poteva che essere uno sbirro, indipendentemente dalla divisa. «E’ quel bastardo di Vallanzasca. Ora finirai per sempre di rompere i coglioni». Udii distintamente il rumore del carrello dalla pistola quando si mette il colpo in canna. Era alle mie spalle. Merda, mi stava ammazzando e, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a muovermi Non avevo paura, ma ero furioso. Morire ci stava pure, ma non riuscire a portarmene appresso qualcuno, era proprio da pirla. Poi sentii un ’altra voce: «Fermi! Non vedete che è morto?» Lo poteva scorgere da terra. Era un carabiniere. Lo sentii discutere con gli altri sbirri. « Ha ammazzato più di un tuo collega e dei nostri. Perché non vuoi eliminarlo?» Un carabiniere gli stava salvando la vita. Sì, devo la pelle ad un ragazzo in divisa. Ancora mi ricordo il tono con cui risposa a quelli che mi volevano far fuori. « Non mi frega un cazzo di chi è e che cosa ha fatto, so solo che è mezzo morto, e che nessuno gli farà niente. Indietro, mettetevi contro il muro...» Aveva armato il mitra e l’aveva alzato ad altezza d’uomo. Tanto che per un attimo pensai, o meglio sognai che... potesse essere un socio travestito. Arrivarono i barellieri Mentre mi caricavano sull’ambulanza mi cade di mano la pistola. Per tutto quel tempo evidentemente non se n’erano accorti. Un barelliere le diede subito un calcio e disse al compagno: «Se gli dico che ce l’aveva in mano lo ammazzano». Poi si rivolse a qualche sbirro: «Guardate, lì c’è una pistola ». Anche un uomo di poca fede come me fu costretto a pensare che di brava gente in giro ce n’era più di quanto si pensasse.

La fuga di Vallanzasca era finita. Ma non era andata meglio a molti altri. Il nappista Pailo Klun e Vittorio Barindelli non erano riusciti a fare un passo oltre il cancello del carcere. Emanuele Attimonelli sarà arrestato la sera stessa. Antonio Colia, dopo essersi asserragliato in un vecchio stabile di fronte al carcere e aver preso in ostaggio una donna, si consegnerà alla fine di quaranta minuti di assedio all’allora commissario e futuro vicecapo della polizia Achille Sera Solo Merlo, Rossi, Lattanzio, Bonato, Marocco e due brigatisti pentitisi il giorno dopo, ce la fecero. L’ambulanza con a bordo Vallanzasca raggiunse il Policlinico in via Francesco Sforza. Erano le due, e mentre i giornali del pomeriggio preparavano lenzuoli a nove colonne per descrivere il terrore di quella mattina, nella sala del Pronto Soccorso venivano scaricate tre lettighe. Su una Vallanzasca, sulle altre due agenti di custodia feriti.

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rene' vallanzasca racconta
by keoma Sunday, Nov. 07, 2004 at 10:03 PM mail:

Vallanzasca racconta l’ evasione da S. Vittore by il fiore del male Thursday, Oct. 14, 2004 at 4:15 PM mail:

da Il fiore del male di Renato Vallanzasca e Carlo Bonini

Il piano (dell’evasione n.d.c) non era particolarmente complesso. L’idea era quella di fare arrivare delle armi in carcere. Il resto sarebbe venuto da solo. Per avere il necessario trovai senza eccessiva difficoltà un cavallo. La guardia era disponibile. C’era solo un problema. A San Vittore, in quel periodo, c’era anche Gigi, Pierluigi Concutelli, coimputato nel processo Trapani per quei milioni che gli erano stati trovati in casa e che provenivano dal riscatto. Non mancavano neppure un buon numero di brigatisti, con un nome per tutti: Corrado Alunni. Senza contare che San Vittore, come e più di tutti i grandi carceri, è un porto di mare. Quindi, in quei tre mesi, sempre per processo, arrivarono in sezione, per fermarsi più o meno a lungo, Turatello, Marco Medda, Mirabella.... Insomma, il gotha della mala milanese. Di fatto, in carcere, erano un po’ in sbattimento. Eravamo in troppi,pericolosi, tutti insieme. Il cavallo mi disse che quello sarebbe stato il periodo meno adatto per introdurre qualsiasi cosa. Li stavano sottoponendo a un sacco di perquise, soprattutto prima di montare nella nostra sezione. Quindi... meglio lasciar passare il momentaccio. Di lì a poco parecchi compagni sarebbero partiti, come pure i miei soci. Tornata la calmasi sarebbe potuto fare tutto bene. Non era il massimo, proprio perché volevo che riuscissero tutti ad approfittarne. Ma quella era la situazione, non si poteva che rimandare. Dissi dunque a quel paio di persone cui tenevo particolarmente di partire tranquilli. Sarebbero dovuti tornare entro un mesetto e promisi che avrei sistemato tutto per il loro ritorno. Con lo svuotarsi dei raggi arrivarono le armi. Il primo pezzo lo imboscai murandolo dietro le piastrelle del cesso. Il secondo i fu consegnato invece quando Pinella, rientrato, venne messo in cella con me. Ricordo perfettamente.

La guardia arrivò davanti alla cella e, mentre allungava il braccio attraverso lo spioncino, mi chiamò: «Vallanzasca, tenga ’sta roba». Proprio da fuori di testa. Neppure si era preoccupato di avvolgerlo in un giornale o in uno straccio. La mano della guardia roteava dentro la cella tenendo il cannone per la canna. Eravamo seduti per la cena e per poco a Pimpi non venne uno sbocco. La guardia ripetéil movimento una seconda volta. E mi ritrovai con due pezzi tra le mani. Tonino non stava più nella pelle. Evidentemente, non era convinto che sarei riuscito a concludere positivamente la missione. Volle un’arma e se ne andò al cesso, per evitare di essere visto da qualcuno cui fosse venuta l’idea di affacciarsi all’improvviso allo spioncino. In preda all’euforia, all’interno del bagno, Pinella cominciò a mimare l’evasione che, nell’attesa dei rientri, arrivò all’ultimo giorno utile fissato per il piano: il 28 aprile. Alle 13.20, durante l’ora d’aria.

Quella mattina mi limitai a dire a tutti che avrebbero dovuto scendere al passeggio con le scarpe da tennis, perché si doveva discutere sulla forma di protesta per risolvere alcuni problemi che si erano verificati in carcere. Infatti, a parte il sottoscritto, Colia, Antonio Rossi, e Micio, c’era Corrado che avrebbe deciso a chi dirlo. Ci fu così la new entry. Quel culo rotto di Daniele Lattanzio. Era arrivato la sera precedente. Sembrava destino: se c’era in atto un preparativo di evasione, quello si materializzava in tempo senza saper nulla in anticipo. Gli altri detenuti ignoravano tutto. E del resto avevo ritenuto inutile informarli. Già ne erano a conoscenza in troppi. Tanto, a che sarebbe servito? L’unica cosa che contava era esser portati fuori e io quello stavo facendo.

Il piano procedeva secondo il programma. Pinella e io, con la scusa che ormai stava uscendo il caffè, ci facemmo aprire la cella per ultimi, anche se in realtà ci trovavamo in quella che avrebbe dovuto essere aperta per prima. A mano a mano che gli altri scendevano venivano messi al corrente. Una volta rimasti soli in sezione, mi feci aprire e passata regolarmente la perquisa con il cannone piazzato tra le palle, me ne andai nel corpo di guardia con il mio bravo caffè bollente. Si mise a parlare con il brigadiere che faceva da caporeparto. Una sceneggiata. Anche questa studiata nei dettagli. «Hai sempre un culo della Modonna. Ogni volta che c’è un problema da risolvere ci sei sempre tu in servizio. Dai, molla sta cazzo di Gazzetta e scendi con me al passeggio che dobbiamo parlare delle infamità che state facendo con la posta». Con la proverbiale flemma di chi non ha voglia di fare un cazzo, e un po’ contrariato, il brigadiere si alzò e mi venne dietro.

Siccome era indispensabile che Pimpi ed io si scendesse assieme, sapendo come prenderlo dissi al brigadiere: «Dai, fai aprire anche Colia, almeno ne discutiamo per bene. Siete qui in metà di mille... o devo pensare che due duri così ti mettono la strizza al culo?». Come mi aspettavo, ’sto pampurio, affermando che lui non aveva paura di nessuno, disse di aprire anche Colia. E tutti insieme, il brigadiere e io davanti a un codazzo di guardie e Pimpi sul fondo della fila, scendemmo lungo le brevi rampe di scale che portavano al piano terra.

Ora avevano pochi minuti. Tirammo fuori i cannoni e ci ritrovammo con una decina di ostaggi. Lui in cima alle scale, io in fondo e loro in mezzo. Feci un breve e minaccioso discorsetto a tutti, al brigadiere in particolare.

Pinella rimase a controllare gli agenti di custodia. Vallanzaca, la pistola puntata alla schiena del brigadiere, sorretto come se stesse male, arrivò nel cortile dove gli altri detenuti erano al passeggio. Il brigadiere fece quello che gli era stato ordinato. Chiamò la guardia nella garitta protetta da un vetro antisfondamento: «Vieni qui a darmi una mano! Non vedi che si senta male?»... Come quello uscì, lo puntai e, in meno di quindici secondi, avendo aperto il cancello dei passeggi liberando tutti gli altri ragazzi. Diedi la terza pistola che avevo a Luigi Lattanzio e i tre coltelli ad altrettanti scatenati. Gli altri si armarono con spranghe di ferro e attrezzi da muratore Dissi quindi a tutti di spogliare le guardie e di indossarne le divise. Io e Pinella dovevamo uscire in fretta, mentre loro, dovendo aspettare che noi gli si aprisse la strada, avrebbero avuto tutto i tempo di travestirsi.

Erano in sedici e contavano sul vantaggio che gli avrebbe garantito la confusione. Tra loro anche Corrado Alunni,, riconosciuto leader di Prima Linea e il nappista Paolo Klun. Ricorrendo alla tecnica, tanto cara agli sbirri, del bastone e della carota, mettemmo in mezzo il brigadiere. Io minacciavo stragi inenarrabili se fosse andato storto qualche cosa e non ce l’avessimo fatta ad uscire. Pimpi rassicurava il briga: «Dai, Renato, non c’è bisogno di strapazzarlo, : ha capito che qui si muore tutti quanti. Vedrai che si comporta bene. Vero brigadiere?».

Il brigadiere assicurò che avrebbe eseguito le istruzioni alla lettera. Primo della fila, avrebbe fatto aprire ai due detenuti tutti i cancelli che separavano il cortile del passeggio dall’ingresso principale del carcere in via Filangieri.

Ci aprirono un cancello dopo l’altro. Avanzavo con Tonino a ruota e a ogni cancello superato, dopo aver preso un altro ostaggio, mettevamo la mandata in modo che tutti gli altri potessero seguirci senza trovare ostacoli. Passammo nel corridoio degli avvocati, sapendo che a quell’ora lo avremmo trovato deserto. L’unica difficoltà rimaneva il doppio cancello prima dell’ingresso. Straripava sempre di guardie, soprattutto durante i turni di mensa. Ma come vidi che l’addetto lo stava aprendo per far entrare un collega, con un paio di spintoni fui dentro. Feci scattare la serratura automatica del secondo cancello e mi precipitai nella portineria senza curarmi dei presenti. Sapevo infatti che alle mie spalle c’era Tonino. La pistola l’avevo nella tasca del giubbotto. Andavo a passo svelto, ma non di corsa. Incrociò un avvocato che lo conosceva. Era appena entrato in carcere con un magistrato per un interrogatorio. Mi guardò stupito, ma dopo una mia occhiata, credo eloquente, si rimise a parlare con il giudice. Arrivai quindi alla tappa finale. E non ci fu nemmeno bisogno di tirare fuori l’arma. La guardia dell’ultimo cancello, intenta a discutere con uno dei suoi, mi degnò a malapena di uno sguardo e spalancò al volo. Con tutto quel via vai doveva essere un riflesso condizionato. Tra me e la libertà non c’erano più ostacoli.

Vallanzaca decise allora di neutralizzare l’ultimo piantone. Quello che stazionava alla porta principale. Lo afferrai per la collottola e lo tirai all’interno del portone. L’avevo preso per le spalle feci per disarmarlo, ma la fondina era vuota. Era un altro napoletano, scansafatiche. Mi riconobbe subito e mi disse : «Rena’, tengo famiglia . U’cannone non ce l’ho. Pesa assaie». Ci sarebbe stato da ridere, se non per il particolare che su quel cannone fidavo molto. Un pezzo in più in certi momenti fa comodo. Lo feci inginocchiare nell’androne con la faccia al muro: «Se ti giri che sono ancora qui, tua moglie dovrà crescere da sola due orfani...». E feci capolino sul portone.

Mentre Vallanzasca aveva raggiunto l’esterno del carcere, i quattordici detenuti del passeggio avevano cominciato a risalire la teoria dei cancelli forzati dal passaggio di Vallanzasca e Colia. Affacciatomi vidi subito due auto dei grippa, che poi risultarono la scorta del magistrato che avevo incrociato uscendo. Erano ferme all’angolo del piccolo bar di via Filangeri, in cui i familiari dei detenuti confezionano il pacco da consegnare al colloquio. Solo uno era rimasto al volante, mentre tre erano scesi e parlavano tra loro. Attraversai la strada e mi fermai sul marciapiede di fronte all’ingresso del carcere, a una ventina di metri di distanza dalle due auto. (nella foto la freccia rossa indica il portone centrale dal quale uscì Vallanzasca ed i giardinetti di fronte)

Doveva aspettare che gli altri lo raggiungessero, almeno Colia e Lattanzio. Affrontare i grippa da solo , con quel pistolino che quasi spariva nella mano, non sarebbe stato igienico. Era pur sempre una calibro 9, ma avendo avuto l’esigenza di farla entrare per nasconderla, avevo chiesto che fosse di piccole dimensioni. Certo, sparava e faceva molto male anche quella. Ma l’impatto psicologico del vedersi minacciato da quel ninnolo poteva non essere terrorizzante. Con due pezzi in mano e mettendoli in mezzo, avrebbero certo avuto meno voglia di fare qualche colpo di testa.

Mai due tardavano. Dal mio punto di osservazione, vidi che tutti avevano raggiunto la portineria. Ma invece di cominciare a uscire, si attardavano a prendere in ostaggio tutti quelli che arrivavano. Per ben due volte attraversai la strada per chiamare fuori almeno uno di quelli con il cannone. Finché, mentre per la seconda volta si trovava al centro della strada, percepì un colpo di pistola. Arrivava dall’interno del carcere. Guardai subito le reazioni in strada e vidi che un solo carabiniere aveva alzato la testa . probabilmente lo scoppio si era confuso con i rumori dell’intenso traffico. Poco dopo però si sentirono altri tre colpi di pistola. In rapida secessione. Lo scarafone ormai era fatto.

I carabinieri misero mano alle armi. E a capire cosa stava accadendoli aiutarono le prime sagome che affacciavano al portone d’ingresso. Cominciò il finimondo. Vallanzasca era l’unico ad essere già in strada, sufficientemente distante dall’entrata del carcere. E con quel giubbottino elegante, camicia e foulard al collo lo avevano confuso per un passante. Un caramba cominciò a urlare di mettermi al riparo. Avrei potuto allontanarmi tranquillamente, ma significava mollare gli altri che erano rimasti inchiodati, farli arrestare tutti senza neanche che avessero messo il naso fuori. Decisi la sola cosa giusta da fare. Attraversai la strada di corsa e cominciai a urlare anch’io: «Prendete gli ostaggi, bisogna uscire alla svelta!»

Era di nuovo all’interno del corpo di guardia. Recuperai quel simpatico napoletano simile ad un ippopotamo che avevo lasciato in ginocchio. Era ancora là come l’avevo messo. Lo presi per il bavero e me lo tirai appresso mentre bestemmiava: Azzz, che sfaccimme e’jurnata. Quindi tornai in strada, questa volta coperto dalla voluminossissima sagoma del mio ostaggio. «Se volete uccidere un innocente, sparate pure» urlai. Gli spari cessarono di colpo de dissi subito agli altri di cominciare a correre sfruttando la nostra copertura Uno dopo l’altro uscirono undici ragazzi, ma siccome dovevamo essere in diciassette, che è veramente un numero sfigato, mi attardai ad attendere gli altri che non si vedevano. Non passarono più di venti secondi, che però ci sarebbero costati cari. Non potevo correre liberamente come facevano gli altri. Per coprirmi la fuga, camminavo a ritroso, obbligando il mio ostaggio a fare altrettanto. Funzionò per un centinaio di metri, ma come il ciccione inciampò e cadde, sembrò il segnale che aspettavano, fu la festa di Piedigrotta.

Vallanzacca ora correva. Antonio Rossi era già stato colpito. Impugnava uno dei tre coltelli a serramanico distribuiti al passeggio. Era riuscito a fare solo un a decina di metri. Lo avevano abbattuto nei giardinetti del vicino Beccaria Vallanzasca proseguì senza voltarsi, finché non svoltò l’angolo di via degli Olivetani, mentre il rumore assordante delle sirene anticipava la rapidità con cui il carcere stava per essere circondato. Fu allora che si accorse che sull’altro marciapiede stava correndo Corrado Alunni, armato del secondo serramanico.

Gli gridai di attraversare la strada Dal mio lato avrebbero avuto la copertura anche della mia pistola Ma soprattutto non sarebbe stato sotto il tiro dei mitra che facevamo fuoco dal muro di cinta. Alunni attraversò via Giambattista Vico. Ma invece di proseguire la corsa fino a trovare uno spazio sufficiente per superare le auto in sosta, si attardò a tentare di passare tra due auto posteggiate troppo vicine. Errore fatale quello del capo di Prima Linea. Un colpo lo raggiunse allo stomaco. Strammazò in terra in un lago di sangue, accanto a una 125 blu coperta da un telone.

Arrivai che era appena caduto. Mi piegai su di lui e lo afferrai per un braccio: «Alzati, Corrado, dai che ce la facciamo». Lui si comprimeva il ventre con le mani, dimenandosi, perché poche ferite sono dolorose come quelle nello stomaco. Aveva la voce straziata: «Vai, non ce la faccio. Scappa e buona fortuna». Mi rialzai: «Okay, buona fortuna anche a te, ci vediamo». Ma forse la frase non la finii neppure. Non so quale delle tre cose percepii per prima, se il carabiniere che a non più di sei metri puntava contro di me la pistola impugnandola con tutt’e due le mani, il colpo secco dell’arma, o la terrificante mazzata.

Il colpo lo aveva raggiunto alla testa, nella parte alta della fronte, all’attaccatura dei capelli. Andai a sbattere contro il muro, ma rimasi in piedi. Avevo la testa che era una giostra. Tutto mi girava intorno vorticosamente. Ma barcollando ebbi ancora la forza di fare qualche metro. Avevo la sensazione che le montagne russe in cui mi sembrava si fosse trasformata la strada andavano spianandosi. Riuscivo anche a correre. Ripetevo a me stesso: «Dai Renato, che ce la fai...ce la devi fare».

A fermarlo fu un secondo, decisivo colpo, esploso dal muro di cinta. Renato si afflosciò come un sacco vuoto La perizia stabilirà che era stato sparato dalla guardia sulla cinta. Il colmo della sfiga. Un colpo partito da un centinaio di metri era rimbalzato sul muro e mi si era conficcato nella parte alta della nuca.

Ora Vallanzasca se ne stava immobile sull’asfalto. Perdeva molto sangue, che gli rendeva quasi irriconoscibile il volto. Non credo dia aver mai perso conoscenza, anche se sembravo morto. Il colpo alla testa mi aveva paralizzato. Non riuscivo a muovere nulla se non le palle degli occhi. Ricordo interminabili minuti di caos in un concerto insopportabile di sirene. Finchè non sentii una fitta all’osso sacro. Una tremenda scarpata di uno che non poteva che essere uno sbirro, indipendentemente dalla divisa. «E’ quel bastardo di Vallanzasca. Ora finirai per sempre di rompere i coglioni». Udii distintamente il rumore del carrello dalla pistola quando si mette il colpo in canna. Era alle mie spalle. Merda, mi stava ammazzando e, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a muovermi Non avevo paura, ma ero furioso. Morire ci stava pure, ma non riuscire a portarmene appresso qualcuno, era proprio da pirla. Poi sentii un ’altra voce: «Fermi! Non vedete che è morto?» Lo poteva scorgere da terra. Era un carabiniere. Lo sentii discutere con gli altri sbirri. « Ha ammazzato più di un tuo collega e dei nostri. Perché non vuoi eliminarlo?» Un carabiniere gli stava salvando la vita. Sì, devo la pelle ad un ragazzo in divisa. Ancora mi ricordo il tono con cui risposa a quelli che mi volevano far fuori. « Non mi frega un cazzo di chi è e che cosa ha fatto, so solo che è mezzo morto, e che nessuno gli farà niente. Indietro, mettetevi contro il muro...» Aveva armato il mitra e l’aveva alzato ad altezza d’uomo. Tanto che per un attimo pensai, o meglio sognai che... potesse essere un socio travestito. Arrivarono i barellieri Mentre mi caricavano sull’ambulanza mi cade di mano la pistola. Per tutto quel tempo evidentemente non se n’erano accorti. Un barelliere le diede subito un calcio e disse al compagno: «Se gli dico che ce l’aveva in mano lo ammazzano». Poi si rivolse a qualche sbirro: «Guardate, lì c’è una pistola ». Anche un uomo di poca fede come me fu costretto a pensare che di brava gente in giro ce n’era più di quanto si pensasse.

La fuga di Vallanzasca era finita. Ma non era andata meglio a molti altri. Il nappista Pailo Klun e Vittorio Barindelli non erano riusciti a fare un passo oltre il cancello del carcere. Emanuele Attimonelli sarà arrestato la sera stessa. Antonio Colia, dopo essersi asserragliato in un vecchio stabile di fronte al carcere e aver preso in ostaggio una donna, si consegnerà alla fine di quaranta minuti di assedio all’allora commissario e futuro vicecapo della polizia Achille Sera Solo Merlo, Rossi, Lattanzio, Bonato, Marocco e due brigatisti pentitisi il giorno dopo, ce la fecero. L’ambulanza con a bordo Vallanzasca raggiunse il Policlinico in via Francesco Sforza. Erano le due, e mentre i giornali del pomeriggio preparavano lenzuoli a nove colonne per descrivere il terrore di quella mattina, nella sala del Pronto Soccorso venivano scaricate tre lettighe. Su una Vallanzasca, sulle altre due agenti di custodia feriti.

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rene' vallanzasca racconta
by keoma Sunday, Nov. 07, 2004 at 10:04 PM mail:

Vallanzasca racconta l’ evasione da S. Vittore by il fiore del male Thursday, Oct. 14, 2004 at 4:15 PM mail:

da Il fiore del male di Renato Vallanzasca e Carlo Bonini

Il piano (dell’evasione n.d.c) non era particolarmente complesso. L’idea era quella di fare arrivare delle armi in carcere. Il resto sarebbe venuto da solo. Per avere il necessario trovai senza eccessiva difficoltà un cavallo. La guardia era disponibile. C’era solo un problema. A San Vittore, in quel periodo, c’era anche Gigi, Pierluigi Concutelli, coimputato nel processo Trapani per quei milioni che gli erano stati trovati in casa e che provenivano dal riscatto. Non mancavano neppure un buon numero di brigatisti, con un nome per tutti: Corrado Alunni. Senza contare che San Vittore, come e più di tutti i grandi carceri, è un porto di mare. Quindi, in quei tre mesi, sempre per processo, arrivarono in sezione, per fermarsi più o meno a lungo, Turatello, Marco Medda, Mirabella.... Insomma, il gotha della mala milanese. Di fatto, in carcere, erano un po’ in sbattimento. Eravamo in troppi,pericolosi, tutti insieme. Il cavallo mi disse che quello sarebbe stato il periodo meno adatto per introdurre qualsiasi cosa. Li stavano sottoponendo a un sacco di perquise, soprattutto prima di montare nella nostra sezione. Quindi... meglio lasciar passare il momentaccio. Di lì a poco parecchi compagni sarebbero partiti, come pure i miei soci. Tornata la calmasi sarebbe potuto fare tutto bene. Non era il massimo, proprio perché volevo che riuscissero tutti ad approfittarne. Ma quella era la situazione, non si poteva che rimandare. Dissi dunque a quel paio di persone cui tenevo particolarmente di partire tranquilli. Sarebbero dovuti tornare entro un mesetto e promisi che avrei sistemato tutto per il loro ritorno. Con lo svuotarsi dei raggi arrivarono le armi. Il primo pezzo lo imboscai murandolo dietro le piastrelle del cesso. Il secondo i fu consegnato invece quando Pinella, rientrato, venne messo in cella con me. Ricordo perfettamente.

La guardia arrivò davanti alla cella e, mentre allungava il braccio attraverso lo spioncino, mi chiamò: «Vallanzasca, tenga ’sta roba». Proprio da fuori di testa. Neppure si era preoccupato di avvolgerlo in un giornale o in uno straccio. La mano della guardia roteava dentro la cella tenendo il cannone per la canna. Eravamo seduti per la cena e per poco a Pimpi non venne uno sbocco. La guardia ripetéil movimento una seconda volta. E mi ritrovai con due pezzi tra le mani. Tonino non stava più nella pelle. Evidentemente, non era convinto che sarei riuscito a concludere positivamente la missione. Volle un’arma e se ne andò al cesso, per evitare di essere visto da qualcuno cui fosse venuta l’idea di affacciarsi all’improvviso allo spioncino. In preda all’euforia, all’interno del bagno, Pinella cominciò a mimare l’evasione che, nell’attesa dei rientri, arrivò all’ultimo giorno utile fissato per il piano: il 28 aprile. Alle 13.20, durante l’ora d’aria.

Quella mattina mi limitai a dire a tutti che avrebbero dovuto scendere al passeggio con le scarpe da tennis, perché si doveva discutere sulla forma di protesta per risolvere alcuni problemi che si erano verificati in carcere. Infatti, a parte il sottoscritto, Colia, Antonio Rossi, e Micio, c’era Corrado che avrebbe deciso a chi dirlo. Ci fu così la new entry. Quel culo rotto di Daniele Lattanzio. Era arrivato la sera precedente. Sembrava destino: se c’era in atto un preparativo di evasione, quello si materializzava in tempo senza saper nulla in anticipo. Gli altri detenuti ignoravano tutto. E del resto avevo ritenuto inutile informarli. Già ne erano a conoscenza in troppi. Tanto, a che sarebbe servito? L’unica cosa che contava era esser portati fuori e io quello stavo facendo.

Il piano procedeva secondo il programma. Pinella e io, con la scusa che ormai stava uscendo il caffè, ci facemmo aprire la cella per ultimi, anche se in realtà ci trovavamo in quella che avrebbe dovuto essere aperta per prima. A mano a mano che gli altri scendevano venivano messi al corrente. Una volta rimasti soli in sezione, mi feci aprire e passata regolarmente la perquisa con il cannone piazzato tra le palle, me ne andai nel corpo di guardia con il mio bravo caffè bollente. Si mise a parlare con il brigadiere che faceva da caporeparto. Una sceneggiata. Anche questa studiata nei dettagli. «Hai sempre un culo della Modonna. Ogni volta che c’è un problema da risolvere ci sei sempre tu in servizio. Dai, molla sta cazzo di Gazzetta e scendi con me al passeggio che dobbiamo parlare delle infamità che state facendo con la posta». Con la proverbiale flemma di chi non ha voglia di fare un cazzo, e un po’ contrariato, il brigadiere si alzò e mi venne dietro.

Siccome era indispensabile che Pimpi ed io si scendesse assieme, sapendo come prenderlo dissi al brigadiere: «Dai, fai aprire anche Colia, almeno ne discutiamo per bene. Siete qui in metà di mille... o devo pensare che due duri così ti mettono la strizza al culo?». Come mi aspettavo, ’sto pampurio, affermando che lui non aveva paura di nessuno, disse di aprire anche Colia. E tutti insieme, il brigadiere e io davanti a un codazzo di guardie e Pimpi sul fondo della fila, scendemmo lungo le brevi rampe di scale che portavano al piano terra.

Ora avevano pochi minuti. Tirammo fuori i cannoni e ci ritrovammo con una decina di ostaggi. Lui in cima alle scale, io in fondo e loro in mezzo. Feci un breve e minaccioso discorsetto a tutti, al brigadiere in particolare.

Pinella rimase a controllare gli agenti di custodia. Vallanzaca, la pistola puntata alla schiena del brigadiere, sorretto come se stesse male, arrivò nel cortile dove gli altri detenuti erano al passeggio. Il brigadiere fece quello che gli era stato ordinato. Chiamò la guardia nella garitta protetta da un vetro antisfondamento: «Vieni qui a darmi una mano! Non vedi che si senta male?»... Come quello uscì, lo puntai e, in meno di quindici secondi, avendo aperto il cancello dei passeggi liberando tutti gli altri ragazzi. Diedi la terza pistola che avevo a Luigi Lattanzio e i tre coltelli ad altrettanti scatenati. Gli altri si armarono con spranghe di ferro e attrezzi da muratore Dissi quindi a tutti di spogliare le guardie e di indossarne le divise. Io e Pinella dovevamo uscire in fretta, mentre loro, dovendo aspettare che noi gli si aprisse la strada, avrebbero avuto tutto i tempo di travestirsi.

Erano in sedici e contavano sul vantaggio che gli avrebbe garantito la confusione. Tra loro anche Corrado Alunni,, riconosciuto leader di Prima Linea e il nappista Paolo Klun. Ricorrendo alla tecnica, tanto cara agli sbirri, del bastone e della carota, mettemmo in mezzo il brigadiere. Io minacciavo stragi inenarrabili se fosse andato storto qualche cosa e non ce l’avessimo fatta ad uscire. Pimpi rassicurava il briga: «Dai, Renato, non c’è bisogno di strapazzarlo, : ha capito che qui si muore tutti quanti. Vedrai che si comporta bene. Vero brigadiere?».

Il brigadiere assicurò che avrebbe eseguito le istruzioni alla lettera. Primo della fila, avrebbe fatto aprire ai due detenuti tutti i cancelli che separavano il cortile del passeggio dall’ingresso principale del carcere in via Filangieri.

Ci aprirono un cancello dopo l’altro. Avanzavo con Tonino a ruota e a ogni cancello superato, dopo aver preso un altro ostaggio, mettevamo la mandata in modo che tutti gli altri potessero seguirci senza trovare ostacoli. Passammo nel corridoio degli avvocati, sapendo che a quell’ora lo avremmo trovato deserto. L’unica difficoltà rimaneva il doppio cancello prima dell’ingresso. Straripava sempre di guardie, soprattutto durante i turni di mensa. Ma come vidi che l’addetto lo stava aprendo per far entrare un collega, con un paio di spintoni fui dentro. Feci scattare la serratura automatica del secondo cancello e mi precipitai nella portineria senza curarmi dei presenti. Sapevo infatti che alle mie spalle c’era Tonino. La pistola l’avevo nella tasca del giubbotto. Andavo a passo svelto, ma non di corsa. Incrociò un avvocato che lo conosceva. Era appena entrato in carcere con un magistrato per un interrogatorio. Mi guardò stupito, ma dopo una mia occhiata, credo eloquente, si rimise a parlare con il giudice. Arrivai quindi alla tappa finale. E non ci fu nemmeno bisogno di tirare fuori l’arma. La guardia dell’ultimo cancello, intenta a discutere con uno dei suoi, mi degnò a malapena di uno sguardo e spalancò al volo. Con tutto quel via vai doveva essere un riflesso condizionato. Tra me e la libertà non c’erano più ostacoli.

Vallanzaca decise allora di neutralizzare l’ultimo piantone. Quello che stazionava alla porta principale. Lo afferrai per la collottola e lo tirai all’interno del portone. L’avevo preso per le spalle feci per disarmarlo, ma la fondina era vuota. Era un altro napoletano, scansafatiche. Mi riconobbe subito e mi disse : «Rena’, tengo famiglia . U’cannone non ce l’ho. Pesa assaie». Ci sarebbe stato da ridere, se non per il particolare che su quel cannone fidavo molto. Un pezzo in più in certi momenti fa comodo. Lo feci inginocchiare nell’androne con la faccia al muro: «Se ti giri che sono ancora qui, tua moglie dovrà crescere da sola due orfani...». E feci capolino sul portone.

Mentre Vallanzasca aveva raggiunto l’esterno del carcere, i quattordici detenuti del passeggio avevano cominciato a risalire la teoria dei cancelli forzati dal passaggio di Vallanzasca e Colia. Affacciatomi vidi subito due auto dei grippa, che poi risultarono la scorta del magistrato che avevo incrociato uscendo. Erano ferme all’angolo del piccolo bar di via Filangeri, in cui i familiari dei detenuti confezionano il pacco da consegnare al colloquio. Solo uno era rimasto al volante, mentre tre erano scesi e parlavano tra loro. Attraversai la strada e mi fermai sul marciapiede di fronte all’ingresso del carcere, a una ventina di metri di distanza dalle due auto. (nella foto la freccia rossa indica il portone centrale dal quale uscì Vallanzasca ed i giardinetti di fronte)

Doveva aspettare che gli altri lo raggiungessero, almeno Colia e Lattanzio. Affrontare i grippa da solo , con quel pistolino che quasi spariva nella mano, non sarebbe stato igienico. Era pur sempre una calibro 9, ma avendo avuto l’esigenza di farla entrare per nasconderla, avevo chiesto che fosse di piccole dimensioni. Certo, sparava e faceva molto male anche quella. Ma l’impatto psicologico del vedersi minacciato da quel ninnolo poteva non essere terrorizzante. Con due pezzi in mano e mettendoli in mezzo, avrebbero certo avuto meno voglia di fare qualche colpo di testa.

Mai due tardavano. Dal mio punto di osservazione, vidi che tutti avevano raggiunto la portineria. Ma invece di cominciare a uscire, si attardavano a prendere in ostaggio tutti quelli che arrivavano. Per ben due volte attraversai la strada per chiamare fuori almeno uno di quelli con il cannone. Finché, mentre per la seconda volta si trovava al centro della strada, percepì un colpo di pistola. Arrivava dall’interno del carcere. Guardai subito le reazioni in strada e vidi che un solo carabiniere aveva alzato la testa . probabilmente lo scoppio si era confuso con i rumori dell’intenso traffico. Poco dopo però si sentirono altri tre colpi di pistola. In rapida secessione. Lo scarafone ormai era fatto.

I carabinieri misero mano alle armi. E a capire cosa stava accadendoli aiutarono le prime sagome che affacciavano al portone d’ingresso. Cominciò il finimondo. Vallanzasca era l’unico ad essere già in strada, sufficientemente distante dall’entrata del carcere. E con quel giubbottino elegante, camicia e foulard al collo lo avevano confuso per un passante. Un caramba cominciò a urlare di mettermi al riparo. Avrei potuto allontanarmi tranquillamente, ma significava mollare gli altri che erano rimasti inchiodati, farli arrestare tutti senza neanche che avessero messo il naso fuori. Decisi la sola cosa giusta da fare. Attraversai la strada di corsa e cominciai a urlare anch’io: «Prendete gli ostaggi, bisogna uscire alla svelta!»

Era di nuovo all’interno del corpo di guardia. Recuperai quel simpatico napoletano simile ad un ippopotamo che avevo lasciato in ginocchio. Era ancora là come l’avevo messo. Lo presi per il bavero e me lo tirai appresso mentre bestemmiava: Azzz, che sfaccimme e’jurnata. Quindi tornai in strada, questa volta coperto dalla voluminossissima sagoma del mio ostaggio. «Se volete uccidere un innocente, sparate pure» urlai. Gli spari cessarono di colpo de dissi subito agli altri di cominciare a correre sfruttando la nostra copertura Uno dopo l’altro uscirono undici ragazzi, ma siccome dovevamo essere in diciassette, che è veramente un numero sfigato, mi attardai ad attendere gli altri che non si vedevano. Non passarono più di venti secondi, che però ci sarebbero costati cari. Non potevo correre liberamente come facevano gli altri. Per coprirmi la fuga, camminavo a ritroso, obbligando il mio ostaggio a fare altrettanto. Funzionò per un centinaio di metri, ma come il ciccione inciampò e cadde, sembrò il segnale che aspettavano, fu la festa di Piedigrotta.

Vallanzacca ora correva. Antonio Rossi era già stato colpito. Impugnava uno dei tre coltelli a serramanico distribuiti al passeggio. Era riuscito a fare solo un a decina di metri. Lo avevano abbattuto nei giardinetti del vicino Beccaria Vallanzasca proseguì senza voltarsi, finché non svoltò l’angolo di via degli Olivetani, mentre il rumore assordante delle sirene anticipava la rapidità con cui il carcere stava per essere circondato. Fu allora che si accorse che sull’altro marciapiede stava correndo Corrado Alunni, armato del secondo serramanico.

Gli gridai di attraversare la strada Dal mio lato avrebbero avuto la copertura anche della mia pistola Ma soprattutto non sarebbe stato sotto il tiro dei mitra che facevamo fuoco dal muro di cinta. Alunni attraversò via Giambattista Vico. Ma invece di proseguire la corsa fino a trovare uno spazio sufficiente per superare le auto in sosta, si attardò a tentare di passare tra due auto posteggiate troppo vicine. Errore fatale quello del capo di Prima Linea. Un colpo lo raggiunse allo stomaco. Strammazò in terra in un lago di sangue, accanto a una 125 blu coperta da un telone.

Arrivai che era appena caduto. Mi piegai su di lui e lo afferrai per un braccio: «Alzati, Corrado, dai che ce la facciamo». Lui si comprimeva il ventre con le mani, dimenandosi, perché poche ferite sono dolorose come quelle nello stomaco. Aveva la voce straziata: «Vai, non ce la faccio. Scappa e buona fortuna». Mi rialzai: «Okay, buona fortuna anche a te, ci vediamo». Ma forse la frase non la finii neppure. Non so quale delle tre cose percepii per prima, se il carabiniere che a non più di sei metri puntava contro di me la pistola impugnandola con tutt’e due le mani, il colpo secco dell’arma, o la terrificante mazzata.

Il colpo lo aveva raggiunto alla testa, nella parte alta della fronte, all’attaccatura dei capelli. Andai a sbattere contro il muro, ma rimasi in piedi. Avevo la testa che era una giostra. Tutto mi girava intorno vorticosamente. Ma barcollando ebbi ancora la forza di fare qualche metro. Avevo la sensazione che le montagne russe in cui mi sembrava si fosse trasformata la strada andavano spianandosi. Riuscivo anche a correre. Ripetevo a me stesso: «Dai Renato, che ce la fai...ce la devi fare».

A fermarlo fu un secondo, decisivo colpo, esploso dal muro di cinta. Renato si afflosciò come un sacco vuoto La perizia stabilirà che era stato sparato dalla guardia sulla cinta. Il colmo della sfiga. Un colpo partito da un centinaio di metri era rimbalzato sul muro e mi si era conficcato nella parte alta della nuca.

Ora Vallanzasca se ne stava immobile sull’asfalto. Perdeva molto sangue, che gli rendeva quasi irriconoscibile il volto. Non credo dia aver mai perso conoscenza, anche se sembravo morto. Il colpo alla testa mi aveva paralizzato. Non riuscivo a muovere nulla se non le palle degli occhi. Ricordo interminabili minuti di caos in un concerto insopportabile di sirene. Finchè non sentii una fitta all’osso sacro. Una tremenda scarpata di uno che non poteva che essere uno sbirro, indipendentemente dalla divisa. «E’ quel bastardo di Vallanzasca. Ora finirai per sempre di rompere i coglioni». Udii distintamente il rumore del carrello dalla pistola quando si mette il colpo in canna. Era alle mie spalle. Merda, mi stava ammazzando e, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a muovermi Non avevo paura, ma ero furioso. Morire ci stava pure, ma non riuscire a portarmene appresso qualcuno, era proprio da pirla. Poi sentii un ’altra voce: «Fermi! Non vedete che è morto?» Lo poteva scorgere da terra. Era un carabiniere. Lo sentii discutere con gli altri sbirri. « Ha ammazzato più di un tuo collega e dei nostri. Perché non vuoi eliminarlo?» Un carabiniere gli stava salvando la vita. Sì, devo la pelle ad un ragazzo in divisa. Ancora mi ricordo il tono con cui risposa a quelli che mi volevano far fuori. « Non mi frega un cazzo di chi è e che cosa ha fatto, so solo che è mezzo morto, e che nessuno gli farà niente. Indietro, mettetevi contro il muro...» Aveva armato il mitra e l’aveva alzato ad altezza d’uomo. Tanto che per un attimo pensai, o meglio sognai che... potesse essere un socio travestito. Arrivarono i barellieri Mentre mi caricavano sull’ambulanza mi cade di mano la pistola. Per tutto quel tempo evidentemente non se n’erano accorti. Un barelliere le diede subito un calcio e disse al compagno: «Se gli dico che ce l’aveva in mano lo ammazzano». Poi si rivolse a qualche sbirro: «Guardate, lì c’è una pistola ». Anche un uomo di poca fede come me fu costretto a pensare che di brava gente in giro ce n’era più di quanto si pensasse.

La fuga di Vallanzasca era finita. Ma non era andata meglio a molti altri. Il nappista Pailo Klun e Vittorio Barindelli non erano riusciti a fare un passo oltre il cancello del carcere. Emanuele Attimonelli sarà arrestato la sera stessa. Antonio Colia, dopo essersi asserragliato in un vecchio stabile di fronte al carcere e aver preso in ostaggio una donna, si consegnerà alla fine di quaranta minuti di assedio all’allora commissario e futuro vicecapo della polizia Achille Sera Solo Merlo, Rossi, Lattanzio, Bonato, Marocco e due brigatisti pentitisi il giorno dopo, ce la fecero. L’ambulanza con a bordo Vallanzasca raggiunse il Policlinico in via Francesco Sforza. Erano le due, e mentre i giornali del pomeriggio preparavano lenzuoli a nove colonne per descrivere il terrore di quella mattina, nella sala del Pronto Soccorso venivano scaricate tre lettighe. Su una Vallanzasca, sulle altre due agenti di custodia feriti.

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hai rotto il cazzo
by uff.. Monday, Nov. 08, 2004 at 1:35 AM mail:

e sono tre, impara a postare.
poi che cazzo c'entra questo con l'articolo?? Che vallanzasca possa essere un uomo coraggioso o che possa essere anche simpatico (soltanto ai coglioni che credono che sia un compagno) non giustifica certe affermazioni di Serra. Oltre a essere uno sbirro infame e' anche un uomo di merda: come fa ad apprezzare il coraggio un uomo cosi'? Solo perche' gira con il pistolone alle ascelle, con una scorta avanti e una dietro? E per giunta sul cadavere di un suo (suo, eh) collega ammazzato. Ma fatemi il piacere, buffoni..

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a Ken Parker
by un vigliacco Monday, Nov. 08, 2004 at 9:48 AM mail:

Vallanzasca è coraggioso almeno quanto tu sei intelligente. Emerita gigantesca testa di cazzo.
Per quanto riguarda serra... speriamo che lo scarico del water funzioni

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a parte che....
by fabio Monday, Nov. 08, 2004 at 10:10 AM mail:


A parte il fatto che per essere coraggioso o simpatico non e' necessario essere un compagno, non si capisce bene cosa voglia uff. (uffiocio politico ? digos ? ros ? ).

Prima di tutto a Dalmine quel giorno Vallanzasca non c'era ed avendo collezionato svariati ergastoli per delitti tranquillamente ammessi, non si riesce a capite perche' avrebbe dovuto negare il fatto.

Infatti la sua condanna per l' episodio e' stata comminata nella logica che essendo l' assassino ( che mori' nella stessa sparatoria) un membro della sua banda, anche lui era ovviamente responsabile.

Cosa che avrebbe avuto senso - discutibile - nel caso di una rapina o di altro atto premedidato ma non certo per una casuale sparatoria ad un posto di blocco sull' autostrada.
Ma all' epoca nei tribunali, in nome dell'"emergenza terroristica", succedevano anche cose di questo tipo.

Pr quanto riguarda il suo essere "compagno", non e' un mistero - ne parla anche nel suo libro - che prima della creazione della banda partecipasse alle manifestazioni del Movimento Studentesco di Mario Capanna e se neallontano' schifato per lo stalinismo e per le abitudini piccolo-borghesi dei dirigenti di quel gruppo.

Anche in carcere ha partecipato regolarmente, prendendo altre condanne, alle lotte dirette dai detenuti politici, oltre alla famosa evasione coi nappisti e con quelli di Prima Linea.

Ed anche recentemente, in occasione delle polemiche sui permessi a Giovanni Brusca, ha scritto una lettera a Radio Onda Rossa in cui ribadisce le sue posizioni politiche che comincia con "cari compagni" e finisce con "hasta la victoria siempre".

Tutto cio' puo' non piacere ad una certa logica "politically correct" che spesso trova spazio pure su Indymedia.

Ma questi sono i fatti.

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leggete qualcosa di serio e cercate di imparare
by keoma Monday, Nov. 08, 2004 at 10:37 AM mail:

Emilio Quadrelli
Andare ai resti
Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta

pp. 336
euro 17,50
ISBN 88-88738-19-3

Sul finire degli anni Sessanta si materializzano in Italia, nell’area del triangolo industriale, sullo sfondo del lavoro di fabbrica, gang giovanili che, in breve tempo, evolveranno in temibili "batterie" di rapinatori. Per tutte basti l’esempio della mitica "banda Vallanzasca". La linea di condotta di questi banditi metropolitani era tutt’altro che estranea ai modelli culturali dei quartieri operai e proletari, così come il loro stile esistenziale assolutizzava quell’impazienza e assenza di mediazione che caratterizzerà le generazioni degli anni Settanta.
Nel gergo pokeristico "andare ai resti" significa giocarsi tutto: in questo modo i rapinatori ostentavano l’imbocco di una via senza ritorno, una "visione del mondo" fatta propria per oltre un decennio dalla "meglio gioventù" e formata attraverso la rielaborazione esistenziale di film e musica: Mucchio selvaggio, Giù la testa, Sugarland express e soprattutto Getaway, Janis Joplin, Jim Morrison e i Rolling Stones.
Tra le molte anomalie, rispetto alla criminalità tradizionale, vi è il ruolo delle donne. In un’epoca in cui, anche negli ambienti più radicali, le donne erano, nella migliore delle ipotesi, gli angeli del ciclostile, le donne/bandite conquistavano un’autonomia decisionale e operativa scomoda sia per il conservatorismo borghese, sia per il progressismo femminista.
Inevitabilmente, quando non muoiono in uno dei tanti conflitti a fuoco, per le donne e gli uomini delle "batterie" il carcere diventa un passaggio obbligato. Qui la loro utopia incontra quella dei militanti rivoluzionari, e in carcere le affinità elettive finiranno con il riconoscersi. Banditi, rapinatori e guerriglieri, a partire da un humus esistenziale comune, mettono in campo la critica più radicale mai portata alle istituzioni totali, che all’interno delle carceri sfocia nelle innumerevoli evasioni, riuscite o tentate.
Quest’epoca tramonta e si dissolve tra la fine degli anni Settanta e primi Ottanta nelle Carceri Speciali lasciandosi dietro una scia di sangue e di orrori. In questo contesto l’"Anti/Stato" della criminalità organizzata ritorna a egemonizzare i mondi illegali.

introduzione

In questo testo, intrecciando esistenze apparentemente incompatibili, ho cercato di raccontare una storia degli anni Settanta. Sul finire del decennio precedente sorgono in Italia, soprattutto nell’area del triangolo industriale, forme di "criminalità" che sfuggono ai tradizionali e in fondo rassicuranti ambiti della devianza e della criminologia. Sullo sfondo del lavoro di fabbrica e d’officina nascono gang giovanili che, in breve tempo, evolveranno in temibili "batterie" di rapinatori, un fenomeno sostanzialmente ignorato dalle scienze storiche e sociali. Eppure la linea di condotta di questi banditi metropolitani era tutt’altro che estranea ai modelli culturali prevalenti nei quartieri operai e proletari, così come il loro stile di vita prefigurava quell’impazienza e quel rifiuto della mediazione che, in breve tempo, caratterizzeranno una quota non indifferente delle generazioni degli anni Settanta. A ben vedere andare ai resti, modo con il quale i rapinatori ostentavano l’imbocco di una via senza ritorno, può considerarsi la "visione del mondo" che ha fatto da cornice a un’intera generazione. Uno stile di vita che, come molte "storie di vita" riportate nel testo confermano, si era formato attraverso la rielaborazione culturale ed esistenziale di film come Il mucchio selvaggio, Giù la testa, Sugarland express e soprattutto Getway, e di esperienze musicali come quelle di Janis Joplin, di Jim Morrison e dei Rolling Stones, che, a ragione, possono ben considerarsi il background culturale di questa anomala generazione.
Tra le molte anomalie rispetto alla criminalità tradizionale messe in campo dalle "batterie" dei rapinatori vi è il ruolo che le donne svolgono al loro interno. In un’epoca in cui anche negli ambienti più radicali le donne non andavano oltre il domestico ruolo di angelo del ciclostile, le bandite conquistano un’autonomia decisionale e operativa scomoda sia per il conservatorismo borghese sia per il progressismo femminista. Di queste donne improbabili, le cui tracce sono andate per lo più perdute, ho provato a ricostruire alcuni profili.
Inevitabilmente, quando non muoiono in uno dei tanti conflitti a fuoco, per le donne e gli uomini delle "batterie" il carcere diventa un passaggio obbligato. È qua che la loro utopia incontra quella dell’orda d’oro dei guerriglieri; ed è in carcere che le affinità elettive finiranno con il riconoscersi. Banditi, rapinatori e guerriglieri, a partire da un humus esistenziale comune, saranno i protagonisti della più radicale messa in mora delle istituzioni totali che la storia di questo paese ricordi. Una critica che costituisce lo sfondo sul quale si snodano gran parte delle storie qui raccontate.
Un’epoca che tramonta e si dissolve tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, per diventare una storia residuale che tra le mura autoreferenziali delle carceri speciali si consuma drammaticamente lasciandosi dietro una scia di sangue e orrori. È in questo frangente che la criminalità organizzata ritorna a esercitare il suo ruolo tradizionale all’interno delle carceri e a egemonizzare i mondi illegali. Un’egemonia resa possibile dalle repentine trasformazioni sociali che il "ciclo dell’eroina" aveva impresso all’esterno. L’eroina dissolve, frantuma e annienta quella base sociale e urbana nella quale banditi e guerriglieri si erano formati, finendo con l’imporre sul territorio quel processo di desocializzazione e individualizzazione degli stili di vita che il "ciclo legale del capitale", ristrutturando le fabbriche e le officine, stava realizzando sui luoghi di lavoro. Il risultato, in carcere come fuori, sarà l’instaurarsi di un modello sociale tipicamente hobbesiano (la guerra di tutti contro tutti) e la rinuncia ad appartenere a un tempo storico declinato sull’utopia in cambio di una realistica accettazione della sua dimensione pragmatica.
Nonostante nella stragrande maggioranza dei casi le "batterie" rimanessero estranee all’imperante "realismo criminale", la loro storia insieme a quella dei "compagni di strada" guerriglieri era segnata, così come all’esterno segnata e scompaginata era ormai quella "classe operaia" che li aveva, in qualche modo, tenuti a battesimo.
In qualche modo alla fine, all’interno di quel processo di pacificazione (più contingente che strutturale) politico e sociale che accompagna la "palude" degli anni Ottanta, tutti tornano a casa e non sembra essere sempre un bel ritorno. Come in un racconto di Roth, per i più inizia una fuga senza fine contornata da un pressante senso di estraneità e inutilità dove non vi è spazio per i luoghi, le cose e la memoria.
Nel libro è presente, benché raccontare una storia fosse un mio obiettivo preciso, anche un’altra ambizione: analizzare il modo in cui il carcere si è modificato nel corso degli ultimi trent’anni. Infatti, sebbene le storie dell’anomalia barbara si siano concluse da tempo, le procedure carcerarie, nella nostra società, continuano a esercitare un ruolo non secondario. Non per niente questa è stata ribattezzata come la società del grande internamento. Il carcere, attualmente, non sembra ridurre la sua presenza, piuttosto il contrario. L’apparente e ottimistica pacificazione politica e sociale di qualche tempo addietro sembra aver lasciato il campo a una guerra senza quartiere, anche se con gradualità diverse, nei confronti delle varie forme di esclusione sociale, quantitativamente sempre più rilevanti nella nostra società. Per questi motivi il libro non può che chiudersi sul presente e sugli stranieri che del mondo carcerario sono diventati i principali abitanti.
Il testo, prevalentemente costruito su interviste, si colloca al crocevia di saperi e ambiti disciplinari diversi che, da tempo, si sono dovuti misurare con le problematiche che l’uso delle voci (siano queste interviste o biografie) degli attori sociali si portano appresso. Un problema metodologico che, insieme ad Alessandro Dal Lago, ho discusso in un recente saggio e al quale pertanto rimando.


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by keoma Monday, Nov. 08, 2004 at 10:41 AM mail:

Emilio Quadrelli
Andare ai resti
Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta

pp. 336
euro 17,50
ISBN 88-88738-19-3

Sul finire degli anni Sessanta si materializzano in Italia, nell’area del triangolo industriale, sullo sfondo del lavoro di fabbrica, gang giovanili che, in breve tempo, evolveranno in temibili "batterie" di rapinatori. Per tutte basti l’esempio della mitica "banda Vallanzasca". La linea di condotta di questi banditi metropolitani era tutt’altro che estranea ai modelli culturali dei quartieri operai e proletari, così come il loro stile esistenziale assolutizzava quell’impazienza e assenza di mediazione che caratterizzerà le generazioni degli anni Settanta.
Nel gergo pokeristico "andare ai resti" significa giocarsi tutto: in questo modo i rapinatori ostentavano l’imbocco di una via senza ritorno, una "visione del mondo" fatta propria per oltre un decennio dalla "meglio gioventù" e formata attraverso la rielaborazione esistenziale di film e musica: Mucchio selvaggio, Giù la testa, Sugarland express e soprattutto Getaway, Janis Joplin, Jim Morrison e i Rolling Stones.
Tra le molte anomalie, rispetto alla criminalità tradizionale, vi è il ruolo delle donne. In un’epoca in cui, anche negli ambienti più radicali, le donne erano, nella migliore delle ipotesi, gli angeli del ciclostile, le donne/bandite conquistavano un’autonomia decisionale e operativa scomoda sia per il conservatorismo borghese, sia per il progressismo femminista.
Inevitabilmente, quando non muoiono in uno dei tanti conflitti a fuoco, per le donne e gli uomini delle "batterie" il carcere diventa un passaggio obbligato. Qui la loro utopia incontra quella dei militanti rivoluzionari, e in carcere le affinità elettive finiranno con il riconoscersi. Banditi, rapinatori e guerriglieri, a partire da un humus esistenziale comune, mettono in campo la critica più radicale mai portata alle istituzioni totali, che all’interno delle carceri sfocia nelle innumerevoli evasioni, riuscite o tentate.
Quest’epoca tramonta e si dissolve tra la fine degli anni Settanta e primi Ottanta nelle Carceri Speciali lasciandosi dietro una scia di sangue e di orrori. In questo contesto l’"Anti/Stato" della criminalità organizzata ritorna a egemonizzare i mondi illegali.

introduzione

In questo testo, intrecciando esistenze apparentemente incompatibili, ho cercato di raccontare una storia degli anni Settanta. Sul finire del decennio precedente sorgono in Italia, soprattutto nell’area del triangolo industriale, forme di "criminalità" che sfuggono ai tradizionali e in fondo rassicuranti ambiti della devianza e della criminologia. Sullo sfondo del lavoro di fabbrica e d’officina nascono gang giovanili che, in breve tempo, evolveranno in temibili "batterie" di rapinatori, un fenomeno sostanzialmente ignorato dalle scienze storiche e sociali. Eppure la linea di condotta di questi banditi metropolitani era tutt’altro che estranea ai modelli culturali prevalenti nei quartieri operai e proletari, così come il loro stile di vita prefigurava quell’impazienza e quel rifiuto della mediazione che, in breve tempo, caratterizzeranno una quota non indifferente delle generazioni degli anni Settanta. A ben vedere andare ai resti, modo con il quale i rapinatori ostentavano l’imbocco di una via senza ritorno, può considerarsi la "visione del mondo" che ha fatto da cornice a un’intera generazione. Uno stile di vita che, come molte "storie di vita" riportate nel testo confermano, si era formato attraverso la rielaborazione culturale ed esistenziale di film come Il mucchio selvaggio, Giù la testa, Sugarland express e soprattutto Getway, e di esperienze musicali come quelle di Janis Joplin, di Jim Morrison e dei Rolling Stones, che, a ragione, possono ben considerarsi il background culturale di questa anomala generazione.
Tra le molte anomalie rispetto alla criminalità tradizionale messe in campo dalle "batterie" dei rapinatori vi è il ruolo che le donne svolgono al loro interno. In un’epoca in cui anche negli ambienti più radicali le donne non andavano oltre il domestico ruolo di angelo del ciclostile, le bandite conquistano un’autonomia decisionale e operativa scomoda sia per il conservatorismo borghese sia per il progressismo femminista. Di queste donne improbabili, le cui tracce sono andate per lo più perdute, ho provato a ricostruire alcuni profili.
Inevitabilmente, quando non muoiono in uno dei tanti conflitti a fuoco, per le donne e gli uomini delle "batterie" il carcere diventa un passaggio obbligato. È qua che la loro utopia incontra quella dell’orda d’oro dei guerriglieri; ed è in carcere che le affinità elettive finiranno con il riconoscersi. Banditi, rapinatori e guerriglieri, a partire da un humus esistenziale comune, saranno i protagonisti della più radicale messa in mora delle istituzioni totali che la storia di questo paese ricordi. Una critica che costituisce lo sfondo sul quale si snodano gran parte delle storie qui raccontate.
Un’epoca che tramonta e si dissolve tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, per diventare una storia residuale che tra le mura autoreferenziali delle carceri speciali si consuma drammaticamente lasciandosi dietro una scia di sangue e orrori. È in questo frangente che la criminalità organizzata ritorna a esercitare il suo ruolo tradizionale all’interno delle carceri e a egemonizzare i mondi illegali. Un’egemonia resa possibile dalle repentine trasformazioni sociali che il "ciclo dell’eroina" aveva impresso all’esterno. L’eroina dissolve, frantuma e annienta quella base sociale e urbana nella quale banditi e guerriglieri si erano formati, finendo con l’imporre sul territorio quel processo di desocializzazione e individualizzazione degli stili di vita che il "ciclo legale del capitale", ristrutturando le fabbriche e le officine, stava realizzando sui luoghi di lavoro. Il risultato, in carcere come fuori, sarà l’instaurarsi di un modello sociale tipicamente hobbesiano (la guerra di tutti contro tutti) e la rinuncia ad appartenere a un tempo storico declinato sull’utopia in cambio di una realistica accettazione della sua dimensione pragmatica.
Nonostante nella stragrande maggioranza dei casi le "batterie" rimanessero estranee all’imperante "realismo criminale", la loro storia insieme a quella dei "compagni di strada" guerriglieri era segnata, così come all’esterno segnata e scompaginata era ormai quella "classe operaia" che li aveva, in qualche modo, tenuti a battesimo.
In qualche modo alla fine, all’interno di quel processo di pacificazione (più contingente che strutturale) politico e sociale che accompagna la "palude" degli anni Ottanta, tutti tornano a casa e non sembra essere sempre un bel ritorno. Come in un racconto di Roth, per i più inizia una fuga senza fine contornata da un pressante senso di estraneità e inutilità dove non vi è spazio per i luoghi, le cose e la memoria.
Nel libro è presente, benché raccontare una storia fosse un mio obiettivo preciso, anche un’altra ambizione: analizzare il modo in cui il carcere si è modificato nel corso degli ultimi trent’anni. Infatti, sebbene le storie dell’anomalia barbara si siano concluse da tempo, le procedure carcerarie, nella nostra società, continuano a esercitare un ruolo non secondario. Non per niente questa è stata ribattezzata come la società del grande internamento. Il carcere, attualmente, non sembra ridurre la sua presenza, piuttosto il contrario. L’apparente e ottimistica pacificazione politica e sociale di qualche tempo addietro sembra aver lasciato il campo a una guerra senza quartiere, anche se con gradualità diverse, nei confronti delle varie forme di esclusione sociale, quantitativamente sempre più rilevanti nella nostra società. Per questi motivi il libro non può che chiudersi sul presente e sugli stranieri che del mondo carcerario sono diventati i principali abitanti.
Il testo, prevalentemente costruito su interviste, si colloca al crocevia di saperi e ambiti disciplinari diversi che, da tempo, si sono dovuti misurare con le problematiche che l’uso delle voci (siano queste interviste o biografie) degli attori sociali si portano appresso. Un problema metodologico che, insieme ad Alessandro Dal Lago, ho discusso in un recente saggio e al quale pertanto rimando.


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